Un boom sui social network: in tanti stanno scegliendo di mettere in copertina sul loro profilo Facebook la foto dell’iraniana Reyhaneh Jabbari, condannata a morte nel 2009 e uccisa per impiccagione sabato scorso a soli 26 anni. “Colpevole” di essersi difesa nel 2007 dal quarantasettenne Morteza Abdolali Sarbandi – un ex dipendente del ministero dell’Intelligence iraniana – che voleva violentarla, fino ad accoltellarlo per salvare la sua vita. Lei ha sempre dichiarato di averlo colpito, ma non di averlo ucciso; aveva raccontato di essere stata invitata con l’inganno nell’appartamento dell’uomo, che disse di volerle offrirle un lavoro come interior designer e invece provò ad abusare di lei. Il caso è stato riesaminato ad aprile di quest’anno, però senza modificare la sentenza di morte, che sarebbe stata mutata in detenzione se i familiari dell’uomo le avessero concesso il perdono.
Un “perdono” che per il figlio della vittima aveva un prezzo: chiedeva che la ragazza negasse il tentativo di stupro per riabilitare “l’onore” paterno; proprio lui ha tolto lo sgabello sotto i piedi della condannata, vedendola morire. Una storia tragica, agghiacciante. Ma dopo l’esecuzione, avvenuta all’alba in una prigione di Teheran, grazie al Web, sta facendo il giro del mondo la traduzione del messaggio rivolto da Reyhaneh a sua madre. Forse perché con queste parole la vita della ragazza continua e in qualche modo ha avuto un senso il suo sacrificio. Forse per il suo estremo atto di altruismo, dichiarando la volontà di donare in modo anonimo i suoi organi: «Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata, il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori oppure pregate per me. Mia dolce madre, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore divengano polvere. Accuserò gli ispettori, il giudice e i giudici della Corte suprema di fronte al tribunale di Dio».
Alla madre Shole Pakravan, attrice di teatro che era riuscita ad avere accanto tanti esponenti della cultura in questa lotta contro la pena capitale, Reyhaneh chiede di non disperarsi per la sua tragica fine: «Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via». Non è servita neppure la ferma condanna di papa Francesco contro la pena di morte. Ma la speranza e la forza della ragazza sembrano incrollabili: «Arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita. Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione che a ognuno che nasce viene messa una responsabilità sulle spalle. Ho imparato che a volte bisogna lottare», dice alla mamma. Parole che nel messaggio audio (registrato ad aprile e reso noto dopo l’esecuzione) risuonano ancora più forti, perché registrate «nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento». Intanto la pagina Facebook “Save Reyhaneh Jabbari From Execution In Iran” registra decine di migliaia di “Mi piace”. «Mi ricordo – rivolgendosi ancora alla madre – quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare, anche se si muore».