Dopo la tragedia di Lampedusa e la protesta delle bocche cucite, le richieste e gli annunci di modifiche per i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) non erano mancati. Nel frattempo, il Sistema è sembrato implodere motu proprio di fronte a inefficienza, condizioni di vita disumane che alimentano rivolte e proteste disperate, tagli ai budget di gestione che pregiudicano anche i servizi più essenziali.
Attualmente otto centri sono stati chiusi a causa di danneggiamenti o problemi di gestione, mentre gli ultimi cinque Cie rimanenti (Torino, Roma, Bari, Trapani Milo e Caltanisetta) operano con una capienza limitata.
Eppure, ora è ufficiale: a breve, probabilmente quest’estate, riapriranno i cancelli (e le sbarre, il filo spinato, i lucchetti, le gabbie) di quello di Milano. Errare è umano, ma perseverare è diabolico, verrebbe da dire…
Nella struttura di via Corelli, ex Cpt, costruita nel 1998 quando il periodo massimo di permanenza era ancora di 30 giorni e non gli attuali 18 mesi, sono infatti terminati i lavori di ristrutturazione necessari dopo anni di rivolte, scioperi della fame, incendi e fughe.
Si è trovato, con un bando al massimo ribasso, un nuovo ente gestore. La Croce Rossa, che ha gestito il centro fino alla chiusura del 31 dicembre scorso, aveva rinunciato perché il compenso giornaliero era troppo basso, ma ora il Prefetto Paolo Tronca ha firmato l’incarico al Raggruppamento temporaneo d’impresa costituito dalla Gepsa, società francese di Gdf Suez, e dall’associazione culturale di Agrigento Acuarinto, dopo che le altre due concorrenti (la Ghirlandina di Modena e la 120 Servizi di Siracusa), nonostante avessero un miglior punteggio, erano state escluse per inadempienze. Ora, per 40 euro a persona, le vincitrici garantiranno il vitto, l’alloggio e i servizi di assistenza per un massimo di 140 “ospiti”, come il Ministero si ostina a chiamare i trattenuti.
Ma cosa c’entra una controllata del colosso dell’energia francese con strutture come i Cie? Oltralpe, la Gepsa gestisce da tempo celle e cortili di alcune carceri. «È la conferma», commenta l’assessore alle Politiche sociali di Milano Majorino, «che i Cie sono luoghi di detenzione. Avevo chiesto che quello di via Corelli non venisse riaperto, ma trasformato in un luogo d’accoglienza. Un’occasione persa».
Pare invece che il “Sistema Cie” sia un buon mercato per la Gepsa, che in passato ha gestito il Cara romano di Castelnuovo di Porto, oggetto nel maggio 2013 di un’interrogazione parlamentare firmata anche dall’attuale ministro Madia per la sorte dei suoi lavoratori, e ha partecipato, facendo ricorso dopo gli esiti negativi, al bando per la gestione del Cie di Gradisca di Isonzo e del Cara foggiano di Borgo Mezzanone.
Sempre a Milano, in una palazzina a due piani proprio accanto al Cie di via Corelli e al canile cittadino, è ora in corso anche la costruzione di un Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo), che dovrebbe aprire entro la fine dell’anno. Sarà la prima struttura di questo tipo in tutto il Nord-Ovest.
La protesta delle "bocche cucite" dell'anno scorso al Cie di Ponte Galeria. In copertina: uno scorcio del centro di via Corelli a a Milano.
«Si tratta di luoghi inumani, antieconomici e inutili», dice don Virginio Colmegna
Il Naga – associazione milanese che opera dal 1987 per promuovere e tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri, rom e sinti – insieme ad altre associazioni ha indetto per martedì 6 maggio alle 18.30 una protesta di fronte alla Prefettura di Milano contro i due centri. «Immaginiamo», scrive il Naga in un comunicato, «che la nuova versione (del Cie, ndr) conterrà strumenti e dispositivi che tenteranno di neutralizzare ogni forma di rivolta attraverso meccanismi di sottomissione e costrizione».
La bocciatura del Cie è senza appello anche per la Casa della Carità di don Virginio Colmegna: «Si tratta di luoghi chiusi e inumani, antieconomici e inutili».
Dati e ricerche lo dicono da tempo: secondo la Polizia di Stato, dei 6.016 (5.431 uomini e 585 donne) trattenuti in tutti i Cie nel 2013, meno della metà (2.749, il 45,7%) sono stati effettivamente rimpatriati e corrispondono allo 0,9% degli immigrati irregolari presenti in Italia.
Anche il “pugno di ferro” voluto dall’allora ministro Maroni nel 2011, quando prolungò la permanenza massima da sei a diciotto mesi, è servito solo a far crescere i costi: l’aumento dei rimpatri effettivi è stato invece di appena il 2,3%.
Adesso il Consiglio dei ministri ha stabilito di tornare a sei mesi, perché – ha spiegato il Viminale – «dopo i primi tre, quattro mesi la possibilità di identificare un soggetto è quasi pari a zero»; la decisione, tuttavia, non è ancora entrata in vigore e andrà attuata per decreto legislativo entro dicembre.
L’inutilità dei Cie è insostenibile per le nostre casse: tra il 2005 e il 2012 sono costati oltre un miliardo di euro, nel 2013 sono stati stanziati 236 milioni di euro (66 milioni in più rispetto al 2012), 220 per il 2014 e 178 per il 2015. Ma il prezzo più alto è quello pagato dagli “ospiti”, detenuti su disposizione dell’autorità amministrativa, non giudiziaria: i Cie italiani sono gabbie dove si sta male, si abusa di psicofarmaci senza prescrizione medica, si tenta il suicidio, si vive sospesi in attesa di un possibile rimpatrio che non si sa mai se e quando ci sarà.
Luoghi di inutile sofferenza, dove – come dice la Casa della Carità parlando di via Corelli – «i diritti delle persone sono stati troppo spesso violati».
Se ne sono accorti i due figli, nati a Roma 8 e 12 anni fa, di Mohammed, algerino in Italia dal 1992, recluso nel Cie di Ponte Galeria. A febbraio, raccontammo su Famiglia Cristiana di come gli chiedessero al telefono: «Papà, tu chiami ma non vieni. Perché?». Ecco, la sera del 21 marzo, è stato portato a Fiumicino e rispedito in Algeria.