Il 7 dicembre, giorno del patrono
di Milano sant’Ambrogio,
come da tradizione si è inaugurata la nuova stagione del Teatro alla
Scala. Dopo 150 anni dalla sua
ultima rappresentazione e dopo
170 dal debutto del 15 febbraio
1845, il sipario si apre sulla
Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi.
Il cast ha riunito Anna Netrebko, Francesco
Meli e Carlos Álvarez. Moshe
Leiser e Patrice Caurier (che da anni
lavorano in coppia), registi.
Verdi, che nutriva una vera passione
per il romantico Friederich,
compose l’opera sul libretto di Temistocle
Solera tratto dal dramma
Die Jungfrau von Orléans (in italiano
La Pulzella di Orléans).
È stato Riccardo Chailly a volere
questo titolo non frequente per la
sua prima inaugurazione di stagione
da direttore principale del Teatro (dal
2017 al 2021 sarà direttore musicale).
Ma prima di spiegarcene le ragioni,
ci parla di una tradizione più recente,
alla quale anche il milanesissimo maestro
tiene molto: l’anteprima del 4
dicembre destinata ai giovani.
«Il fatto di dare l’opportunità ai
giovani di avvicinarsi alla musica è in
sé importante, anche come compito
istituzionale dell’Ente. Perché si dà la
possibilità di ascoltare e di scoprire
opere di grande bellezza. E devo dire
che, quando partecipo agli incontri
che organizziamo prima dell’esecuzione
delle opere con gli studenti di
tutte le università di Milano, avverto
e mi dicono loro stessi che c’è un vivo
interesse nell’apprendere, scoprire e
approfondire cosa sono queste partiture
musicali, quali orizzonti di-
dischiudono.
Pensiamo a Giovanna d’Arco,
che apre le porte a Schiller, no alla
musica e alla cultura del Novecento, o
alla pittura».
Cosa può regalare la musica a
questi ragazzi?
«La cultura in generale, e lo vediamo
da secoli, è l’ossatura della società.
Tutto si crea intorno alla conoscenza».
Che importanza ha un teatro per
una città?
«Il Teatro deve rappresentare continuamente la possibilità di accesso
all’arte viva, ascoltata, nel caso della
musica, e non solo studiata sui libri.
Perché non si deve teorizzare la cultura,
questo certamente non basta.
E spesso vedere e ascoltare signica
avere grandi sorprese, stupirsi».
Maestro, la scelta di Giovanna
d’Arco è in sintonia con l’idea della
“sua” Scala.
Ce ne parla?
«Un teatro come la Scala di Milano,
che riunisce il meglio di quanto ci sia
dal punto di vista produttivo in tutti
i settori, credo sia chiamato a esprimersi
intorno ai nostri autori: e non
è una attitudine italo-centrica, come
qualcuno l’ha denita, ma l’espressione
di una volontà di valorizzare i nostri
grandi geni del melodramma. Potremmo estendere al nostro immenso
patrimonio artistico la stessa considerazione.
È una necessità, che però
non preclude in nulla la possibilità di
allargare gli orizzonti verso il nuovo o
verso il repertorio parallelo».
Il lascito di un musicista dunque è
anche culturale?
«Questo lo giudicheranno altri. Ma
io credo di sì. La mia esperienza con
le due precedenti istituzioni storiche,
il Concertgebouw di Amsterdam e
il Gewandhaus di Lipsia, mi ha dato
questa consapevolezza: la volontà
di accostarmi alla storia e alle radici
dell’istituzione. E la Scala è il mio terzo
incarico con un teatro dalla storia
secolare. È una grande responsabilità:
sociale e culturale al tempo stesso».
Come mai Giovanna d’Arco di
Giuseppe Verdi viene raramente
rappresentata?
«Quest’opera soffre da sempre di
un mancato riconoscimento del valore
della musica. Quando mi chiedono
“Perché proprio Giovanna d’Arco?”,
rispondo: “Prima ascoltala e poi mi
chiederai il perché”. Già dalla sinfonia
è evidente che ci troviamo di fronte a
un Verdi trentaduenne, ma con una
capacità musicale e creativa impressionante.
Ed è un’opera con molti
elementi che sono il nucleo di tanti
capolavori che seguiranno. Certo, se
si assiste a Giovanna d’Arco pensando
a Schiller si rimane stupiti. Perché
Solera ha semplicato al massimo la
vicenda per Verdi, permettendogli di
lavorare sulla personalità dei tre personaggi
principali. E, per esempio, il
con
itto fra padre e glia sarà poi sviluppato
in Traviata».
Maestro Chailly, quali sono i suoi
primi ricordi personali legati al Teatro
alla Scala?
«Ricordo Claudio Abbado, al quale
mi sono avvicinato quando ero studente
e del quale in seguito sono diventato
assistente. Ma il mio primo
ricordo è quando mio padre (Luciano,
grande compositore e direttore artistico
del Teatro alla Scala, ndr) mi portò
da bambino a vedere il suo balletto
Fantasmi al Grand Hotel, realizzato su
testo e scenograe di Dino Buzzati. Fu
indimenticabile per l’impatto con la
sala, le luci, i colori».