Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
lunedì 16 settembre 2024
 
L'intervista
 

Riccardo Cucchi: "Ai bambini dico: non lasciate che vi portino via il pallone"

18/11/2023  Un altro calcio è ancora possibile è il titolo ottimistico dell'ultimo libro dell'ex radiocronista Rai: "Dobbiamo ribellarci noi per primi all'idea che lo stadio sia una zona franca. E insegnare ai piccoli che l'insulto all'avversario non è tifo"

Dopo una vita a raccontare le partite alla radio, il passo compassato di chi non può e non deve lasciarsi andare per rispetto di tutte le fedi calcistiche, tenuto all'obiettività per dovere, Riccardo Cucchi è tornato da dov'era partito bambino, nella curva della Lazio, affezionato ai rimbalzi poetici di Borges: "Ovunque ci sia un bambino che prende a calci qualcosa per strada, comincia la storia del calcio" e aggrappato all'ottimismo della volontà, tanto da intitolare un libro Un altro calcio è ancora possibile (People), nel 2023 delle scommesse dei petrodollari sauditi.

All’inizio e alla fine del libro compare la figura di don Vincenzo. Che cosa ha fatto per meritarsi un posto importante nel libro di un non credente?

«Ha capito che noi bambini volevamo semplicemente divertirci e giocare con il sorriso anche magari quando si accendevano le risse sul campo dell’oratorio. È la grande differenza tra la mia generazione che giocava in strada e all’oratorio e quella di oggi che gioca alle scuole calcio: per noi il pallone era puro divertimento, nessuno ci rimproverava se ci tenevamo la palla e tentavamo un dribbling, questo suscitava la creatività, la fantasia di correre verso il nostro obiettivo, che era naturalmente il gol: adesso non avviene più. Nelle scuole calcio ci sono troppe pressioni: è vero, danno la possibilità di calpestare campi in erba cosa che a noi era impedita, ma si è troppo legati fin da piccoli al calcio tattico. Credo che sia questa una delle ragioni per cui si sono perse generazioni di talenti. Gli ultimi che abbiamo celebrato: Totti, Del Piero, Vialli nascevano in oratorio chissà che non c’entri il fatto che non si giochi più così liberamente negli oratori e in strada con il fatto che alle nostre latitudini si fatichi a trovare piedi buoni».

Siamo vicini alla giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell'adolescenza (20 novembre). Tra i diritti dei bambini c’è quello al gioco. Quanto è frustrato nelle nostre città?

«Di recente, a Roma, in uno spiazzo tra le case in cui sentivo i bambini vocianti giocanti giocare, ho visto un cartello tristissimo: “In questo spazio è severamente vietato giocare a pallone”. Che cosa vogliamo per i nostri bambini? Che giochino solo, sotto la nostra illusione di controllo, davanti a uno schermo, in cui possono trovare cose più grandi di loro? Rischierebbero meno se giocassero come noi in cortile, anche a costo di rompere qualche vetro e di fronteggiare la minaccia del signore che scendeva con lo spillone per bucarci il pallone. Penso che quel cortile sia tuttora più sicuro di un Pc che può portare su strade pericolosissime, stando dentro casa. Il divieto di gioco dice che le nostre città hanno perso l’anima, sono sotto il dominio delle macchine: io preferivo sentire le voci dei ragazzini, a costo di rovinarmi la pennichella».

Il libro è anche una denuncia dei mali del calcio. Che messaggio dà ai bambini il calcio dei grandi?

«Un messaggio triste: quello della prevalenza dei soldi. Il calcio è un’industria che non produce caramelle ma passione, il rischio è che venga seppellita sotto una montagna di denaro. È un’impresa che consuma soldi, ma invece di pensare a come correggere il tiro per non giocare in deficit, diventa sempre più vorace. In questo modo dimentica i sentimenti, ma mi pare miope: il rischio è che nel disamore finisca anche il business: se il pubblico del calcio si stancasse di essere solo un cliente di non esserne più considerato il cuore, lascerebbe sia gli abbonamenti Tv sia gli stadi».

Ci sono segnali in questa direzione?

«Prima di Borussia Dortmund -New Castle è uscito uno striscione: “A voi dello sport non interessa niente, vi importano solo i soldi”, credo che sia un segnale d’allarme che l’industria calcio non può ignorare».

Il libro non ha fatto in tempo a registrarla, ma nel frattempo è esplosa anche l’inchiesta sulle scommesse illegali. Danno da pensare le dichiarazioni di calciatori che scommettono per noia. Che pensieri suscitano?

«Io sono molto severo: un calciatore professionista non solo è osannato e idolatrato, ha avuto il privilegio dato dal dono di natura di giocare ad alto livello, è padrone della sua vita e del suo futuro, certo non disagiato visti i guadagni, l’unica cosa che non può fare è scommettere sul calcio. Anche volendo ammettere che questi giovani calciatori siano ludopatici – e speriamo che ne escano -, mi chiedo perché esercitarsi sul calcio potendo farlo legalmente su tutto il resto? Non è giustificabile, devono essere criticati severamente dai loro tifosi e dal sistema. Sono d’accordo che le pene debbano rieducare, ci mancherebbe, ma una sanzione ci vuole per un gesto che non può essere giustificato».

Dopo decenni di terzietà in tribuna stampa Riccardo Cucchi è tornato a tifare Lazio in curva. Di che cosa parliamo quando parliamo di tifosi?

«Sto facendo su di me un esperimento sociologico, ero un ragazzo di curva che ha avuto la fortuna di trasformare la passione in un lavoro e sono tornato in curva dove tutto è cominciato: mi riconosco nei tifosi che vivono di passione, io credo che questo sentimento sfugga a chi gestisce il calcio. Sogno che presidenti di società di calcio che con baffi, occhiali scuri, parrucca e naso finto vengano a respirare l’aria dentro la curva, capirebbero che non maneggiano soltanto soldi. So anche che nelle curve si annidano tutte le contraddizioni della società, il calcio è una carta assorbente: così si spiegano razzismo, violenza politica, violenza e basta, ma io credo che il calcio, se vuole, può creare negli stadi un’atmosfera diversa, che faccia da battistrada per la società. Anziché considerare il razzismo un male secondario il calcio dovrebbe combatterlo con maggiore forza dall’interno. Ciò che il calcio non può e non deve fare è accettare che lo stadio diventi un porto franco, ogni volta che lo fa nega l’essenza dello sport che è accoglienza, assenza di barriere, linguaggio universale, condivisione, dialogo con tutte le nazionalità e tutte le religioni. Se non si convince di questo favorirà gli atteggiamenti più beceri che noi non vogliamo: non tutti apprezzano i cori razzisti neanche in curva».

Le curve compresa quella della Lazio che lei frequenta non son tutte di stinchi di santo... 

«Vero, ha molte complessità e contraddizioni, la cosa positiva è che ho visto di recente il pubblico ribellarsi e fischiare chi stava tifando nel modo sbagliato. In un Lazio-Napoli ho visto entrare dei ragazzini con la maglia della Lazio e iniziare il solito coro becero contro i tifosi napoletani. Ma i tifosi normali si sono alzati e li hanno fischiati e rimproverati finché, spiazzati, non si sono seduti a tifare in modo normale».

Chi dentro il calcio può fare qualcosa?

«Lo hanno fatto Ancelotti e Ranieri, si sono esposti in prima persona. Non basta, devono essere sostenuti dall'intero sistema».

Quanta strada c’è da fare?

«Non sarebbe lunga, se le società prendessero coscienza del problema e usassero loro per prime il Daspo verso chi si comporta male. Ancelotti che dopo la partita rifiuta le domande di rito sul calcio perché vuole parlare di razzismo, in solidarietà con un suo calciatore Vinicius, è un esempio di come si possa fare. Se parte una presa di coscienza collettiva si fa in fretta».

Che cosa direbbe a un bambino che sogna il pallone oggi? 

«Gli direi che i suoi occhi sono i migliori, che gli adulti dovrebbero guardare il calcio come fa lui. La condizione è che non abbia genitore che lo porti allo stadio insegnandogli con l’esempio a offendere l’avversario. Gli direi che dovrà battersi nella sua vita di appassionato per un obiettivo importante: non farsi rubare il pallone, perché il pallone è di chi sogna, non degli altri».

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo