Da tempo Anna Maria Mori è impegnata nel tentativo di suscitare una memoria condivisa e non ideologica su quel che accadde alla fine del secondo conflitto mondiale in quel complicatissimo territorio che è "il confine orientale". Lo sforzo si è tradotto nei libri Bora del 1999, Nata in Istria del 2006, in alcuni documentari sulla sua terra d'origine e ora, in occasione della Giornata del ricordo, in un nuovo romanzo, L'anima altrove (Rizzoli). Un'indagine struggente e - come si vedrà - narrativamente originale che la giornalista e scrittrice, nata a Pola e poi esule, ha condotto sui temi dell'identità, dello sradicamento, dell'appartenenza, attraverso la vicenda di Irene, una donna non più giovane, "costretta" in un salto nel passato a incontrare, agli albori del Novecento, le vite di Natalia, Umberto e Renzo, su cui si era abbattuto il trauma dell'esodo forzato dall'Istria.
Come è nata la storia di Natalia, Umberto, Renzo e Irene?
«È il mio libro più sofferto, ci lavoravo da sei anni. Direi che nasce dall'idea della centralità della casa, del luogo dove ciascuno apre gli occhi sul mondo, sugli oggetti che sopravvivono alle persone e testimoniano storie».
Il libro si alimenta infatti di un singolare espediente letterio, per il quale sono le cose a farsi voce narrante...
«Parlano al posto delle persone, che non ci sono più o che la vita ha reso afasiche. Fra gli esuli, si incontrano quelli che straparlano e quelli che confessano: "Mio padre non me ne ha mai parlato". Io appartengo alla seconda categoria: per anni non ho voluto fare i conti, ho serrato il passato in un angolo della coscienza. Va detto che la storia di quel territorio è complessa, nemmeno io riuscivo a decifrare ciò che avevo vissuto da bambina, perché un bambino non capisce e non accetta l'ingiustizia. Non ha risposte alla domanda "Perché ci odiano?". Ci ho messo una vita per trovarle».
Al blocco psicologico personale contribuisce anche la mancata elaborazione di una memoria collettiva su queste vicende storiche?
«Certo. So che se dico che sono istriana, la maggior parte della gente pensa che sono fascista. È un pregiudizio duro da smantellare. Siamo passati tutti per fascisti, perché era più comodo pensare così, per slogan, che documentarsi e sforzarsi di capire. Eravamo una massa di fascisti e quindi, in fondo, pagavamo il giusto prezzo».
La coscienza storica ha fatto qualche passo o siamo fermi a quei
pregiudizi?
«Il Paese ha cominciato ad aprire gli occhi, anche se sulle foibe più
che sull'esodo, che pure ha riguardato 350 mila persone. Devo dire che,
presentando i miei libri in tutta Italia, mi sono sempre trovata fra due
fazioni: da una parte i fligli dei partigiani, che mi avrebbero presa a
botte, dall'altra una destra che rivendicava meriti che non ha... A
tutti ricordo le specifiche responsabilità».
Nel suo romanzo descrive il senso di sradicamento, di non appartenza
che investe chi ha dovuto lasciare la terra nativa...
«Personalmente, sento ad esempio la distanza dalle architetture e faccio
fatica ad ambientarmi: il barocco di Roma, dove vivo, è splendido, ma
non mi appartiene. Il senso di appartenenza va di pari passo con il
senso di sicurezza, che solo il luogo dove si è nati e cresciuti può
regalare. Mi colpisce, ogni volta che torno là, sentir parlare una
lingua che non è quella che parlavo da bambina. Allora provo uno
stranniamento incredibile».
Paolo Perazzolo
Qual è la “piccola guerra” che dà titolo La mia piccola guerra di Italo Gasperini (Armando Curcio) al libro? Quella condotta, alla fine della seconda guerra mondiale, dal giovanissimo Mario Silvestri in una indefinita località di mare della penisola istriana.
Una personale lotta contro i partigiani comunisti jugoslavi, «invasori mascherati da liberatori (che) erano arrivati sbandierando parole come eguaglianza e libertà, ma avevano ben presto rivelato il loro vero volto di spietati e feroci assassini».
Lo spunto narrativo è che Mario, adulto, torni dopo mezzo secolo nei luoghi dell'infanzia, da cui era dovuto fuggire con i famigliari nel 1948, per trovare il luogo dov'era stato sepolto dopo la morte il padre, medico del paese e morto in carcere dopo un processo-farsa in stile staliniano.
La famiglia di Mario fu parte di quei «350mila italiani dell'Istria e della Dalmazia che, vittime innocenti, hanno dovuto pagare per tutti la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale».
Il racconto perciò procede per salti temporali, tra il presente (la ricerca di Mario, che lo porta a rivedere i vecchi luoghi, ma anche gli amici e a rivangare antiche memorie) e il passato.
Un periodo, quello appunto dell'immediato dopoguerra, segnato dal ricordo del fatto che «migliaia di esseri umani, che avevano come unica colpa il fatto di amare la loro patria, erano stati barbaramente trucidati e scaraventati ancora vivi in orribili e profonde voragini del terreno, tecnicamente chiamate foibe».
Il passaggio all'adolescenza, per Mario, è traumatico, segnato dall'arresto del padre, una figura di grande dignità che prima di congedarsi dalla famiglia tenta di rassicurarla: «State tranquilli, tutto si sistemerà perché io non ho mai fatto nulla di cui mi debba rimproverare».
Il giovane Mario si trasforma così in una specie di eroe come i protagonisti dei romanzi d'avventura dei suoi tempi: nottetempo, rimette a posto il crocifisso che l'insegnante vorrebbe bandito dall'aula scolastica; rompe i vetri della casa del capo locale della polizia segreta; ruba ai magazzini lo zucchero che, scambiato al mercato nero, servirà a salvare la madre dalla tubercolosi. Addirittura, riuscirà a strappare dalle mani di un miliziano assettato di violenza la sua maestra, Olga.
Ma la realtà è crudele, non è un romanzo di cappa e spada e i Silvestri non possono continuare a vivere in un mondo in cui «se di notte squillava il campanello di casa, lo sguardo di tutti esprimeva solo paura: paura di sparire nel nulla, come succedeva molto spesso. Quel suono preannunciava quasi sempre l'inizio di un lungo percorso che portava a una morte preceduta da atroci torture», spesso in una foiba, «uno squarcio nella terra di circa cinque metri per nove, che poteva far pensare a una mostruosa bocca urlante».
Occorre quindi partire, trasferirsi in Italia, iniziare una vita da cui, un giorno, tornare indietro per ricordare e ritrovare.
Qualche altra indicazione bibliografica per approfondire alcuni aspetti della Giornata del ricordo. In Porzûz (il Mulino) lo storico Tommaso Piffer cerca di fare il punto sulle più recenti accquisizioni della storiografia sull'eccidio di 20 partigiani delle formazioni "Osoppo", che nel febbraio del 1945 si consumò ad opera di un commando di Gap comunisti: uno dei più gravi e sanguinosi scontri interni alla Resistenza italiana, oggetto di un infuocato dibattito politico. Il saggio diventa anche una riflessione sulle modalità con cui, fino ad oggi, si è analizzata questa pagina della nostra storia.
Massimiliano Contarin ha scelto invece la forma del romanzo per tornare ai giorni violenti seguiti all'8 settembre del 1943 in Istria e a Trieste. La storia di Alessandro e dell'amata Gaia, che un giorno svanisce nel nulla, diventa nei Cento veli (Dalai) una riflessione sul male, il senso di colpa e la responsabilità. Caterina Sansone e Alessandro Tota sono infine autori di una graphic novel sull'argomento: Palacinche. Storia di un'esule fiumana (Fandango).
Carlo Faricciotti
Regna ancora molta ignoranza sui fatti che riguardarono il cosiddetto confine orientale a partire dal 1943. Spesso non si fa distinzione fra le foibe e l'esodo forzato che colpì circa 350 mila italiani. Finché non ci sarà conoscenza, una memoria condivisa resterà impossibile. A tal fine, vogliamo dare un piccolo contributo cercando di definire che cosa furono le foibe. Riportiamo la defizione data nel sito di La storia siamo noi della Rai, dove sono reperibili ulteriori link per altrettanti approfondimenti.
«Le foibe sono cavità carsiche di origine
naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra
il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila
italiani.La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma
dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani
slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano,
massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li
considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del
1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del
Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci
sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa,
donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del
terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba. È una carneficina che
testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per
eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino
alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra
l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce».
Paolo Perazzolo