La famiglia oggi offre un punto di osservazione
prezioso sia per capire i grandi problemi
di questo tempo, sia per immaginare una via
di uscita dalla crisi, non solo economica ma più in
generale antropologica, in cui siamo immersi.
E, soprattutto, in un mondo in cui un’ideologia
dell’individualismo spinto, illimitato (indisponibile
ad accettare qualunque limite alla propria realizzazione)
e assoluto (sciolto da qualsiasi vincolo, visto
appunto come limitante), ha mostrato tutta la sua
incapacità di realizzare le promesse di felicità e benessere
che avevano decretato il suo successo, la famiglia
si offre come un luogo dove elaborare, insieme
ad altri, i significati che orientino le nostre scelte
in un momento così complesso e difficile.
Con una premessa terminologica, che è anche
metodologica: le parole che utilizziamo non sono
pure etichette che servono a intendersi (più o meno),
ma sono modi di dare forma alla realtà, di descriverla,
ma anche di immaginarla, nella comunicazione
ovvero nella costruzione/scoperta comune di
un senso. Per questo le parole vanno continuamente
ripensate, liberate dalla patina di opacità che
l’uso abituale deposita sulla loro capacità di significare,
rigenerate nei loro significati più autentici che
rischiano di venire mortificati dalle consuetudini e
dalle ristrette evidenze del “dato di fatto”.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti
La giornata mondiale della famiglia è anche
un’importante occasione per rivitalizzare, insieme
ai termini, anche la nostra consapevolezza e progettualità,
in una prospettiva condivisa, dato che nella
cultura contemporanea la ricchezza dei significati
originari di questi ambiti fondamentali
per la pienezza dell’esistenza umana
rischia di perdersi. Intanto per ripensare
la festa. Nella radice etimologica
di “festa” c’è il tema della convivialità,
dell’abbondanza e della gioia
(dal greco festiào, che vuol dire “festeggio”,
“banchetto”), ma anche quello
dell’accoglienza, del focolare domestico
che si apre all’ospitalità, allargata
anche a chi non fa parte della famiglia
strettamente intesa come l’insieme
dei legami di sangue (dal greco
estiào, che riprende il nome da Hestia,
la dea del focolare domestico che tiene
la porta sempre aperta per il pellegrino
di passaggio).
Sia la dimensione celebrativa, sia
l’articolazione tra riparo intimo e
apertura accogliente, contenuto
nell’accezione originaria, rischiano
di perdersi. La prima schiacciata da
un regime di equivalenze generalizzate,
sulla base dell’unità di misura
dell’istante, che differenzia i momenti
sulla base dell’intensità emozionale
individuale: mantenere la memoria,
festeggiare i successi dei membri, sottolineare
la domenica, il giorno
dell’onomastico, gli anniversari anche
della famiglia allargata, sono tutte
occasioni per inserire una discontinuità
che alimenti e ravvivi l’ordinarietà.
Possibilmente in forme più innovative
e creative di quelle semplicemente
offerte dal consumo.
La seconda dimensione, quella
dell’accoglienza, rischia di venire soffocata
dall’egoismo metodologico
che la pedagogia implicita della cultura
contemporanea inevitabilmente alimenta:
si è sempre meno disposti ad
ascoltare, a dimenticarsi di sé stessi, a
fare spazio. Tutti presi dai propri progetti
(per lo più a breve termine) e dai
propri bisogni, si tende a vedere l’altro
come un ostacolo (o se va bene come
un mezzo) per la propria auto-organizzazione.
Si è sempre più chiusi alla
vita: i figli sono visti prevalentemente
in termini di costi e rinunce, e se va
bene come occasioni di “esperienza”
di cui non ci si vuole privare. A maggior
ragione tutto ciò che è vincolo impegnativo
(il malato, l’anziano, lo straniero
che ci vive accanto) viene rifuggito
e visto solo nella prospettiva di
quello che ci “toglie”. Non c’è da stupirsi
allora che le vite siano ripiegate
difensivamente su loro stesse, rattrappite
e asfittiche: senza l’apertura
all’esterno, all’imprevisto che mobilita
risorse che non sapevamo di avere,
all’altro che ci libera dalla prigione di
noi stessi. La famiglia oggi salta anche
perché si è individualizzata, si è chiusa
a tutto ciò che di spirituale ma anche
di relazionale può alimentarla, e così
rischia di rimanere un’istituzione-guscio,
sfibrata e disseccata.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti
Anche il lavoro è in crisi, una crisi
di senso prima ancora che economica.
Nella sua accezione originaria il lavoro,
che reca in sé i significati
dell’opera, della fatica e dell’impegno
(da labor, fatica) contiene anche
la capacità tipicamente umana di trasformare,
orientare, far essere (dalla
radice antica labh, che significa in senso
letterale “afferrare” e in senso figurato
“volgere il desiderio, la volontà,
l’intento, l’opera a qualcosa”). Un dinamismo
trasformativo dunque, una
poiesis che non è puro fare strumentale,
ma anche azione dotata di senso e
in qualche modo “poetica” (che non
a caso ha la stessa radice).
La famiglia aiuta a sanare l’alienazione
che il lavoro ha subìto nella cultura
contemporanea, che è una cultura
della contrapposizione e delle false
alternative. Da una parte, il lavoro è
diventato una pura funzione (lo strumento
per avere accesso al consumo;
in casi numericamente molto più rari
lo strumento per la propria autoaffermazione
e per l’acquisizione di potere personale) spesso sganciata dal significato
e dalla dimensione relazionale.
Dall’altra ha subìto una precarizzazione
che sollecita un disinvestimento
emotivo. La famiglia è un ambito in
cui il lavoro ha certamente una componente
strumentale-riproduttiva e
anche ripetitiva (se si pensa al ciclo
ininterrotto del lavoro domestico),
ma non é riducibile a esse. Anzi, proprio
nel lavoro domestico la dimensione
del dovere e quella dell’espressività,
la fatica e la gioia, l’impegno individuale
e la bellezza della condivisione
possono trovare spazio e sintesi, e farsi
così momenti di educazione a un
rapporto non alienante con le dimensioni
della fatica e dell’impegno. Contrastando
il luogo comune
che la fatica sia
solo peso, e che per “rifarsi”
occorra un divertimento
disimpegnato.
famiglia:
un “nome collettivo”
(né singolare né
plurale) che ha a che
fare con la casa (faama
nel latino antico), e soprattutto
con le relazioni,
di sangue ma non
solo, che nella casa trovano
un contesto favorevole
e facilitante.
Perché è dentro la casa
che si sperimenta la
fondamentale condizione
antropologica della non autosufficienza,
non vissuta come una condizione
di limitazione frustrante, ma
come occasione di gioiosa gratitudine.
La famiglia è il luogo in cui si sperimenta
che “la relazionalita è un elemento
essenziale dell’umanità” (Caritas
in Veritate, n. 55): «Il punto cruciale
sta nel superamento d quella falsa
idea di autonomia che induce l’uomo
a percepirsi come un “io” completo
in sé stesso, laddove, invece, egli diventa
“io” nella relazione con il “tu” e
con il “noi” (...) e solo l’incontro con
il “tu” e con il “noi” apre l’io a sé stesso
» (Orientamenti Pastorali n. 9).
In un mondo in cui tendono a prevalere
sempre più l’individualismo interconnesso
e i fragili legami di rete,
e la connessione digitale ininterrotta
rischia di scivolare in una cybersolitudine,
la famiglia è ancora il luogo in
cui sperimentare che la pienezza della
relazione intercorporea resta il modello
e il fine di ogni altra forma, seppur
preziosa, di interazione. E in un
mondo frammentato, dove il tempo
diventa una collezione di istanti,
l’identità una collezione di faccia, la
relazione una sommatoria di esperienze
e dove pubblico e privato, individuale
e collettivo, materiale
e spirituale, funzioni
e significati sono
sempre più contrapposti
(o dove, in modo altrettanto
discutibile, si
appiattiscono le distinzioni),
la famiglia diventa
ancor più un luogo
di sintesi, di ricomposizione
delle fratture,
di tessitura di unità
nelle differenze. Un
luogo dove si impara
che non c’è mai solo
gioia o solo dolore,
che la festa comporta
un impegno, che
l’amore per l’altro passa
dal prendersene cura (CV 11).
La famiglia può essere il luogo della
gratuità che contrasta il dilagare
della strumentalità. Nel suo messaggio
per la 43° Giornata mondiale delle
Comunicazioni sociali, Benedetto
XVI scriveva che «il cuore umano anela
a un mondo in cui regni l’amore,
dove i doni siano condivisi». Condividere
i doni, realizzarsi con altri, coltivare
il rapporto e la trasmissione tra le
generazioni come una ricchezza che
può alimentare la ricerca di vie nuove:
la famiglia può essere il laboratorio
di un’alleanza intergenerazionale
di cui oggi c’è molto bisogno per ritessere
i legami e non rimanere intrappolati
nella dittatura del dato di fatto,
per la quale il presente non ci offre alcun
antidoto. Può essere, si diceva, anche
il luogo dove non c’è contrapposizione
tra azione strumentale e azione
simbolica, tra funzioni e significati:
ogni gesto e ogni parola esprimono
più di quanto dicono, e, attraverso
questa loro “eccedenza”, aprono alla
dimensione di una verità che é amore.
La famiglia può essere il luogo di
una “poesia del quotidiano”, un ossimoro
solo apparente come ci hanno
insegnato tanti grandi poeti, da Blake
a Hopkins, da Holderlin a Rilke. Un
approccio poetico alla quotidianità ci
consente di «declinare la testimonianza
nel mondo secondo gli ambiti fondamentali
dell’esistenza umana, cercando
nelle esperienze quotidiane
l’alfabeto per comporre le parole con
le quali ripresentare al mondo l’amore
infinito di Dio» (O.P.). In un mondo
di contiguità disconnesse, di relazioni
virtuali da cui si esce con un click,
di legami fragili e relazioni sofferenti,
dove «la società sempre più globalizzata
ci rende vicini ma non ci rende
fratelli» (C.V. 5), solo in un contesto
dove nella continuità, nella prossimità,
nell’ascolto e nella gratuità è
possibile sperimentare (e non solo immaginare
o sperare) le condizioni
che ci educhino, per usare un’espressione
di Christopher Theobald, a una
“fraternità non sovvertita”.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti
Lo sviluppo degli ultimi decenni ha
prodotto un cambiamento accelerato
che, se da un lato ha ampliato le opportunità
e gli orizzonti di vita, dall’altro
ha trasformato in profondità il significato
e la portata di questi tre ambiti
antropologici. Analizziamoli.
- Consumo e crisi della festa. La
cosiddetta società dei consumi recupera
e trasforma alcuni tratti costitutivi
della festa – il dispendio, lo star bene,
la socialità – in pratica quotidiana.
Abbandonata l’etica lavoristica della
prima fase industriale, si afferma una
visione materialistica della vita, in cui
hanno un ruolo centrale benessere e
godimento. Nella cultura degli ultimi
decenni, il consumo è addirittura diventato
un dovere economico – occorre
consumare per sostenere l’economia
– e persino un imperativo morale
– ognuno gode del legittimo diritto a
stare bene. Apparentemente liberatorio,
il consumo finisce però per trasformarsi
in una nuova prigione. Non
a caso, c’è stato chi ha definito il nostro
tempo come l’epoca delle passioni
tristi, perché la ricerca del godimento
è destinata continuamente al
suo fallimento, nella misura in cui i
beni o le esperienze che inseguiamo
si rivelano quanto mai inconsistenti.
L’atto del consumo ha effetti immediati
e visibili, ma la soddisfazione
non può che durare poco. Il consumo,
infatti, offrendo un palliativo momentaneo,
che va per questo continuamente
ripetuto, rivela di continuo
la sua inefficacia, per contrastare
la quale ha bisogno di sviluppare un
tratto ossessivo-compulsivo.
Inoltre, anche quando svolto in presenza
di altri – anzi, di solito si consuma
in mezzo agli altri e il “consumo vistoso”,
come è stato definito già all’inizio
del secolo, è parte integrante della
soddisfazione dell’atto stesso – il
consumo rimane pensato come un atto
individuale. Si consuma magari vicini,
ma spesso ognuno per conto suo.
Si consuma da soli, pur sentendosi
parte della “tribù” dei consumatori
che costruisce un “noi” effimero e poco
impegnativo. Dalla “massa” di individui
isolati e vulnerabili si passa allo
“sciame” dei consumatori (come li
chiama Bauman), individualmente ma simultaneamente sintonizzati sugli
stessi oggetti del desiderio (i must
have del momento) e pratiche (i must
do). Così che, alla fine, la cultura della
libertà assoluta finisce col produrre
nuove normatività, nuove autorità
(gli esperti come i “nuovi sacerdoti”
dell’era contemporanea, come li finisce
Illich) e nuove ritualità (i calendari
del consumo dettati dal lancio dei
nuovi prodotti, dalla stagione dei saldi
etc.; i pellegrinaggi a quelle che Ritzer
chiama “le nuove cattedrali del
consumo”, come ipermercati e outlet;
i “rituali individuali di massa” come le
diete prima della stagione estiva, rimbalzate
da ogni medium e non solo
dai settimanali femminili e così via).
E il consumo, che avrebbe dovuto garantire
espressività e autonomia, felicità
e socialità, finisce invece per produrre
tanti individui che, soli e insoddisfatti,
agiscono in modo estremamente
conforme. Così, le persone
che dicono di fare quello che vogliono
finiscono per fare tutte le stesse cose,
e il conformismo è l’effetto solo apparentemente
paradossale della libertà
assoluta, vista come libertà di scelta
nella società dei consumi.
Diventando un’attività quotidiana
che tende non solo a occupare molta
parte delle nostre giornate, ma anche
a definire la nostra identità, il consumo
tende così a colonizzare anche la
festa. Quest’ultima, spogliata della sua
dimensione collettiva e soprattutto,
della sua componente di sacralità, viene
colonizzata dal consumo, dato che
le persone, senza rendersene conto,
continuano a lavorare producendo
reddito attraverso la loro attività di acquisto.
La dimensione sacra, rifiutata
nella sua veste religiosa, riemerge come
si è visto nella forma dei pellegrinaggi
alle “cattedrali del consumo”,
nelle ritualità guidate dai nuovi esperti
(gli idoli del momento, i guru delle
ultime tendenze), nella partecipazione
di massa ma individuale alle cerimonie
calcistiche, all’inizio dei saldi,
al concerto della star. L’appiattimento
inevitabilmente prodotto da questo regime
viene contrastato, nella cultura
dominante, con iniezioni di eccitazione
artificiale che mirano a rendere
l’istante (unità di misura delle vite contemporanee)
il più denso e intenso
possibile, con qualunque mezzo (dalla
trasgressione all’uso di sostanze).
- Crisi del lavoro. Parallelamente
all’ascesa del consumo si registra la discesa
del lavoro che, per molte persone
– anche se non per tutti – diventa
un ambito secondario e in molti casi
problematico. Tale effetto si produce
su un duplice piano. Prima di tutto, il
lavoro è in crisi per le mutate condizioni
economiche che lo rendono precario
e instabile. Il perdurare di problemi
dal lato della sicurezza del lavoro,
la larga diffusione del lavoro nero,
la flessibilizzazione dell’occupazione,
il ritorno di forme odiose di sfruttamento,
la perdita di una scansione degli
orari tale da permettere nonché
una netta separazione tra lavoro e
non lavoro sono tutti aspetti concreti
di quel processo di flessibilizzazione
di cui si è avuta ampia traccia negli ultimi
due decenni. Al tempo stesso, la
flessibilizzazione ha anche portato
con sé profondi cambiamenti organizzativi,
con un ciclo produttivo che
sembra non potersi fermare mai e deve
girare 24 ore su 24 e 365 giorni su
365 giorni all’anno. Senza più alcuna
interruzioni in grado di rispettare il
tempo altro: quello del riposo, degli
affetti, della contemplazione. E poi,
più radicalmente, il lavoro non è per
tutti. Pensiamo in particolare all’ancora
insufficiente capacità di valorizzare
la risorsa femminile e quella giovanile.
Su un secondo piano, la crisi del lavoro
investe la sua componente
espressiva ed esistenziale. Infatti, la
progressiva svalutazione sociale del lavoro,
la caduta di prestigio di tante
professioni socialmente importanti
(come quella dell’insegnante per
esempio) lo rendono sempre meno
un ambito su cui investire e sempre
più un elemento puramente strumentale,
spesso anche fonte di risentimento
sociale. Per una quota crescente di
popolazione, il lavoro non solo non è
una fonte di realizzazione – cosa che
probabilmente non è mai stata – ma
stenta anche a rappresentare un valore
esistenziale. E ciò sia per effetto delle
mutazioni nell’esperienza del lavoro,
ma anche per il rapporto tra il lavoro
e le altre sfere di vita. L’individualizzazione
incide anche sul senso del
lavoro, dato che si lavora per sé stessi
e più raramente per qualcun altro.
- Crisi della famiglia. Il terzo polo
della crisi è quello della famiglia. La
tendenza generale è nota: si riduce il
numero dei matrimoni, aumentano
le convivenze, crescono separazioni e
divorzi, calano le nascite, si diffondono
le famiglie ricombinate (o multiple)
e i bambini nati fuori dal matrimonio.
Le ragioni sono molteplici e
attengono ad aspetti culturali, economici
e istituzionali. Di fatto, la crisi
della famiglia è espressione di una
più generale crisi del legame sociale.
In un mondo in cui ci pensiamo come
individui, in cui consumiamo e lavoriamo
come individui, la famiglia
perde terreno. Mancanza di solidarietà
e sostegno per affrontare i momenti
di crisi e fatica, individualismo, potenza
di immaginari che stimolano la
ricerca della realizzazione e del benessere
individuale, caduta dei riferimenti
condivisi capaci di orientare, sostenere
e valorizzare l’impegno familiare,
modalità abitative che rinforzano
il senso di isolamento e rendono complessa
la gestione della quotidianità,
soprattutto in presenza di figli piccoli,
sono solo alcune delle ragioni che
spiegano la difficoltà attuale delle
coppie di restare unite, la bassa natalità,
il problema dell’assistenza agli anziani.
Non che la famiglia sparisca. È
che viene messa sotto attacco e svuotata
dall’interno: se la disposizione di
fondo è quella dell’apertura a nuove
opportunità, allora tutto ciò che lega
e impegna è visto come una fatica.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti
Di fronte a questo quadro – che poggia
sull’assioma implicito ma efficace
del diritto al godimento individuale,
nutre un individualismo esasperato e
ostacola la costruzione di rapporti che
non siano di strumentalità, violenza, o
indifferenza – che la crisi economica
rende sempre più manifesto, occorre
prendere atto che la strada intrapresa
va cambiata. Ce lo ricorda, ormai quasi
quotidianamente, Benedetto XVI
che insiste sulla necessità di lavorare
per un nuovo modello di sviluppo. Da
dove partire dunque se non dalla triade
lavoro, festa, famiglia?
La famiglia, custode premurosa del
legame tra le generazioni e fedele interprete
delle esigenze dell’umano, è
un luogo di resistenza nei confronti
di queste derive che tendono a schiacciarla.
La crisi della famiglia – come
ogni crisi, un momento di “separazione”,
“rottura”, ma anche decisione – è
al tempo stesso occasione per la sua rinascita.
Come dimostra il fatto che,
nonostante le potenti forze della propaganda
della libertà assoluta, molte
persone continuano a intuire e a praticare
la famiglia come un bene incommensurabile
che va protetto e curato.
E d’altra parte, sono ormai numerosi
i modelli di famiglia allargata
o ricostituita che provano a trasformare
le ragioni della sua crisi in occasioni
per inventare nuove forme di convivenza
e convivialità.
Partire dalla famiglia significa riconoscere
che l’umano ha le sue esigenze
e i suoi tempi. Dalla famiglia si riconoscono
i bisogni dei bambini, dei
malati, degli adolescenti, degli anziani.
Essa “baricentra” sia il lavoro sia la festa in una prospettiva che non è
strettamente individualistica. Col suo
contributo diventa possibile contrastare
il “regime di equivalenza generalizzata”
che cancella le distinzioni – comprese
quelle tra tempo feriale/tempo
festivo, lavoro/tempo libero, tempo
sacro/tempo profano – in quanto
considerate limitanti rispetto alla possibilità
di attribuire qualunque significato
possibile ai diversi momenti, e
quindi lesive della libertà (intesa riduttivamente
come possibilità di fare
quello che piace o si ha voglia di fare).
Rimettere al centro dell’attenzione
la famiglia significa, in questo senso,
riuscire a rimettere in discussione
il modo in cui il lavoro e la festa vengono
definiti nell’attuale modello di sviluppo.
Vuol dire trovare un punto di
riferimento sicuro per liberare questi
ultimi due ambiti espressivi dalle riduzioni
e derive che hanno assunto nella
contemporaneità, andando a detrimento
anziché a sostegno della famiglia,
e cominciare a rigenerare il senso
più autentico di questi due momenti.
Da un lato l’impegno e la dedizione,
che comportano non solo l’espressione
di sé e la strumentalità, ma anche
la capacità di sacrificio (sacrum facere)
– che include anche il saper far
fatica per poter dare valore e che non
può essere, se non artificialmente e
ideologicamente, contrapposto alla
realizzazione di sé; dall’altro la gioia
che non è puro intrattenimento o ricerca
ossessiva del godimento, ma soprattutto
riconoscenza e riconoscimento
(di un’interdipendenza, ma
anche di una dipendenza, di un legame
di gratitudine che innesca processi
di restituzione non necessariamente
simmetrica), e per questo apertura
all’“altro” e all’“Altro”, al “tu” che ci
sta di fianco e al “Tu” che ci costituisce
come esseri pienamente umani,
chiamandoci suoi figli.
Chiara Giaccardi
e Mauro Magatti