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sabato 12 ottobre 2024
 
 

Ripensare la famiglia in tempi di crisi

21/03/2012  L'evidente crisi della società attuale chiede di essere superata attraverso un cambiamento di rotto, ripartendo dalla triade famiglia, festa e lavoro.

La famiglia oggi offre un punto di osservazione prezioso sia per capire i grandi problemi di questo tempo, sia per immaginare una via di uscita dalla crisi, non solo economica ma più in generale antropologica, in cui siamo immersi.

E, soprattutto, in un mondo in cui un’ideologia dell’individualismo spinto, illimitato (indisponibile ad accettare qualunque limite alla propria realizzazione) e assoluto (sciolto da qualsiasi vincolo, visto appunto come limitante), ha mostrato tutta la sua incapacità di realizzare le promesse di felicità e benessere che avevano decretato il suo successo, la famiglia si offre come un luogo dove elaborare, insieme ad altri, i significati che orientino le nostre scelte in un momento così complesso e difficile.

Con una premessa terminologica, che è anche metodologica: le parole che utilizziamo non sono pure etichette che servono a intendersi (più o meno), ma sono modi di dare forma alla realtà, di descriverla, ma anche di immaginarla, nella comunicazione ovvero nella costruzione/scoperta comune di un senso. Per questo le parole vanno continuamente ripensate, liberate dalla patina di opacità che l’uso abituale deposita sulla loro capacità di significare, rigenerate nei loro significati più autentici che rischiano di venire mortificati dalle consuetudini e dalle ristrette evidenze del “dato di fatto”.

Chiara Giaccardi
Mauro Magatti

La giornata mondiale della famiglia è anche un’importante occasione per rivitalizzare, insieme ai termini, anche la nostra consapevolezza e progettualità, in una prospettiva condivisa, dato che nella cultura contemporanea la ricchezza dei significati originari di questi ambiti fondamentali per la pienezza dell’esistenza umana rischia di perdersi. Intanto per ripensare la festa. Nella radice etimologica di “festa” c’è il tema della convivialità, dell’abbondanza e della gioia (dal greco festiào, che vuol dire “festeggio”, “banchetto”), ma anche quello dell’accoglienza, del focolare domestico che si apre all’ospitalità, allargata anche a chi non fa parte della famiglia strettamente intesa come l’insieme dei legami di sangue (dal greco estiào, che riprende il nome da Hestia, la dea del focolare domestico che tiene la porta sempre aperta per il pellegrino di passaggio).

Sia la dimensione celebrativa, sia l’articolazione tra riparo intimo e apertura accogliente, contenuto nell’accezione originaria, rischiano di perdersi. La prima schiacciata da un regime di equivalenze generalizzate, sulla base dell’unità di misura dell’istante, che differenzia i momenti sulla base dell’intensità emozionale individuale: mantenere la memoria, festeggiare i successi dei membri, sottolineare la domenica, il giorno dell’onomastico, gli anniversari anche della famiglia allargata, sono tutte occasioni per inserire una discontinuità che alimenti e ravvivi l’ordinarietà. Possibilmente in forme più innovative e creative di quelle semplicemente offerte dal consumo.

La seconda dimensione, quella dell’accoglienza, rischia di venire soffocata dall’egoismo metodologico che la pedagogia implicita della cultura contemporanea inevitabilmente alimenta: si è sempre meno disposti ad ascoltare, a dimenticarsi di sé stessi, a fare spazio. Tutti presi dai propri progetti (per lo più a breve termine) e dai propri bisogni, si tende a vedere l’altro come un ostacolo (o se va bene come un mezzo) per la propria auto-organizzazione. Si è sempre più chiusi alla vita: i figli sono visti prevalentemente in termini di costi e rinunce, e se va bene come occasioni di “esperienza” di cui non ci si vuole privare. A maggior ragione tutto ciò che è vincolo impegnativo (il malato, l’anziano, lo straniero che ci vive accanto) viene rifuggito e visto solo nella prospettiva di quello che ci “toglie”. Non c’è da stupirsi allora che le vite siano ripiegate difensivamente su loro stesse, rattrappite e asfittiche: senza l’apertura all’esterno, all’imprevisto che mobilita risorse che non sapevamo di avere, all’altro che ci libera dalla prigione di noi stessi. La famiglia oggi salta anche perché si è individualizzata, si è chiusa a tutto ciò che di spirituale ma anche di relazionale può alimentarla, e così rischia di rimanere un’istituzione-guscio, sfibrata e disseccata.

Chiara Giaccardi
Mauro Magatti

Anche il lavoro è in crisi, una crisi di senso prima ancora che economica. Nella sua accezione originaria il lavoro, che reca in sé i significati dell’opera, della fatica e dell’impegno (da labor, fatica) contiene anche la capacità tipicamente umana di trasformare, orientare, far essere (dalla radice antica labh, che significa in senso letterale “afferrare” e in senso figurato “volgere il desiderio, la volontà, l’intento, l’opera a qualcosa”). Un dinamismo trasformativo dunque, una poiesis che non è puro fare strumentale, ma anche azione dotata di senso e in qualche modo “poetica” (che non a caso ha la stessa radice).

La famiglia aiuta a sanare l’alienazione che il lavoro ha subìto nella cultura contemporanea, che è una cultura della contrapposizione e delle false alternative. Da una parte, il lavoro è diventato una pura funzione (lo strumento per avere accesso al consumo; in casi numericamente molto più rari lo strumento per la propria autoaffermazione e per l’acquisizione di potere personale) spesso sganciata dal significato e dalla dimensione relazionale. Dall’altra ha subìto una precarizzazione che sollecita un disinvestimento emotivo. La famiglia è un ambito in cui il lavoro ha certamente una componente strumentale-riproduttiva e anche ripetitiva (se si pensa al ciclo ininterrotto del lavoro domestico), ma non é riducibile a esse. Anzi, proprio nel lavoro domestico la dimensione del dovere e quella dell’espressività, la fatica e la gioia, l’impegno individuale e la bellezza della condivisione possono trovare spazio e sintesi, e farsi così momenti di educazione a un rapporto non alienante con le dimensioni della fatica e dell’impegno. Contrastando il luogo comune che la fatica sia solo peso, e che per “rifarsi” occorra un divertimento disimpegnato.

famiglia: un “nome collettivo” (né singolare né plurale) che ha a che fare con la casa (faama nel latino antico), e soprattutto con le relazioni, di sangue ma non solo, che nella casa trovano un contesto favorevole e facilitante. Perché è dentro la casa che si sperimenta la fondamentale condizione antropologica della non autosufficienza, non vissuta come una condizione di limitazione frustrante, ma come occasione di gioiosa gratitudine. La famiglia è il luogo in cui si sperimenta che “la relazionalita è un elemento essenziale dell’umanità” (Caritas in Veritate, n. 55): «Il punto cruciale sta nel superamento d quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a percepirsi come un “io” completo in sé stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e con il “noi” (...) e solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’io a sé stesso » (Orientamenti Pastorali n. 9).

In un mondo in cui tendono a prevalere sempre più l’individualismo interconnesso e i fragili legami di rete, e la connessione digitale ininterrotta rischia di scivolare in una cybersolitudine, la famiglia è ancora il luogo in cui sperimentare che la pienezza della relazione intercorporea resta il modello e il fine di ogni altra forma, seppur preziosa, di interazione. E in un mondo frammentato, dove il tempo diventa una collezione di istanti, l’identità una collezione di faccia, la relazione una sommatoria di esperienze e dove pubblico e privato, individuale e collettivo, materiale e spirituale, funzioni e significati sono sempre più contrapposti (o dove, in modo altrettanto discutibile, si appiattiscono le distinzioni), la famiglia diventa ancor più un luogo di sintesi, di ricomposizione delle fratture, di tessitura di unità nelle differenze. Un luogo dove si impara che non c’è mai solo gioia o solo dolore, che la festa comporta un impegno, che l’amore per l’altro passa dal prendersene cura (CV 11).

La famiglia può essere il luogo della gratuità che contrasta il dilagare della strumentalità. Nel suo messaggio per la 43° Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, Benedetto XVI scriveva che «il cuore umano anela a un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi». Condividere i doni, realizzarsi con altri, coltivare il rapporto e la trasmissione tra le generazioni come una ricchezza che può alimentare la ricerca di vie nuove: la famiglia può essere il laboratorio di un’alleanza intergenerazionale di cui oggi c’è molto bisogno per ritessere i legami e non rimanere intrappolati nella dittatura del dato di fatto, per la quale il presente non ci offre alcun antidoto. Può essere, si diceva, anche il luogo dove non c’è contrapposizione tra azione strumentale e azione simbolica, tra funzioni e significati: ogni gesto e ogni parola esprimono più di quanto dicono, e, attraverso questa loro “eccedenza”, aprono alla dimensione di una verità che é amore. La famiglia può essere il luogo di una “poesia del quotidiano”, un ossimoro solo apparente come ci hanno insegnato tanti grandi poeti, da Blake a Hopkins, da Holderlin a Rilke. Un approccio poetico alla quotidianità ci consente di «declinare la testimonianza nel mondo secondo gli ambiti fondamentali dell’esistenza umana, cercando nelle esperienze quotidiane l’alfabeto per comporre le parole con le quali ripresentare al mondo l’amore infinito di Dio» (O.P.). In un mondo di contiguità disconnesse, di relazioni virtuali da cui si esce con un click, di legami fragili e relazioni sofferenti, dove «la società sempre più globalizzata ci rende vicini ma non ci rende fratelli» (C.V. 5), solo in un contesto dove nella continuità, nella prossimità, nell’ascolto e nella gratuità è possibile sperimentare (e non solo immaginare o sperare) le condizioni che ci educhino, per usare un’espressione di Christopher Theobald, a una “fraternità non sovvertita”.


Chiara Giaccardi

Mauro Magatti

Lo sviluppo degli ultimi decenni ha prodotto un cambiamento accelerato che, se da un lato ha ampliato le opportunità e gli orizzonti di vita, dall’altro ha trasformato in profondità il significato e la portata di questi tre ambiti antropologici. Analizziamoli.

  • Consumo e crisi della festa. La cosiddetta società dei consumi recupera e trasforma alcuni tratti costitutivi della festa – il dispendio, lo star bene, la socialità – in pratica quotidiana. Abbandonata l’etica lavoristica della prima fase industriale, si afferma una visione materialistica della vita, in cui hanno un ruolo centrale benessere e godimento. Nella cultura degli ultimi decenni, il consumo è addirittura diventato un dovere economico – occorre consumare per sostenere l’economia – e persino un imperativo morale – ognuno gode del legittimo diritto a stare bene. Apparentemente liberatorio, il consumo finisce però per trasformarsi in una nuova prigione. Non a caso, c’è stato chi ha definito il nostro tempo come l’epoca delle passioni tristi, perché la ricerca del godimento è destinata continuamente al suo fallimento, nella misura in cui i beni o le esperienze che inseguiamo si rivelano quanto mai inconsistenti. L’atto del consumo ha effetti immediati e visibili, ma la soddisfazione non può che durare poco. Il consumo, infatti, offrendo un palliativo momentaneo, che va per questo continuamente ripetuto, rivela di continuo la sua inefficacia, per contrastare la quale ha bisogno di sviluppare un tratto ossessivo-compulsivo.

Inoltre, anche quando svolto in presenza di altri – anzi, di solito si consuma in mezzo agli altri e il “consumo vistoso”, come è stato definito già all’inizio del secolo, è parte integrante della soddisfazione dell’atto stesso – il consumo rimane pensato come un atto individuale. Si consuma magari vicini, ma spesso ognuno per conto suo. Si consuma da soli, pur sentendosi parte della “tribù” dei consumatori che costruisce un “noi” effimero e poco impegnativo. Dalla “massa” di individui isolati e vulnerabili si passa allo “sciame” dei consumatori (come li chiama Bauman), individualmente ma simultaneamente sintonizzati sugli stessi oggetti del desiderio (i must have del momento) e pratiche (i must do). Così che, alla fine, la cultura della libertà assoluta finisce col produrre nuove normatività, nuove autorità (gli esperti come i “nuovi sacerdoti” dell’era contemporanea, come li finisce Illich) e nuove ritualità (i calendari del consumo dettati dal lancio dei nuovi prodotti, dalla stagione dei saldi etc.; i pellegrinaggi a quelle che Ritzer chiama “le nuove cattedrali del consumo”, come ipermercati e outlet; i “rituali individuali di massa” come le diete prima della stagione estiva, rimbalzate da ogni medium e non solo dai settimanali femminili e così via). E il consumo, che avrebbe dovuto garantire espressività e autonomia, felicità e socialità, finisce invece per produrre tanti individui che, soli e insoddisfatti, agiscono in modo estremamente conforme. Così, le persone che dicono di fare quello che vogliono finiscono per fare tutte le stesse cose, e il conformismo è l’effetto solo apparentemente paradossale della libertà assoluta, vista come libertà di scelta nella società dei consumi.

Diventando un’attività quotidiana che tende non solo a occupare molta parte delle nostre giornate, ma anche a definire la nostra identità, il consumo tende così a colonizzare anche la festa. Quest’ultima, spogliata della sua dimensione collettiva e soprattutto, della sua componente di sacralità, viene colonizzata dal consumo, dato che le persone, senza rendersene conto, continuano a lavorare producendo reddito attraverso la loro attività di acquisto. La dimensione sacra, rifiutata nella sua veste religiosa, riemerge come si è visto nella forma dei pellegrinaggi alle “cattedrali del consumo”, nelle ritualità guidate dai nuovi esperti (gli idoli del momento, i guru delle ultime tendenze), nella partecipazione di massa ma individuale alle cerimonie calcistiche, all’inizio dei saldi, al concerto della star. L’appiattimento inevitabilmente prodotto da questo regime viene contrastato, nella cultura dominante, con iniezioni di eccitazione artificiale che mirano a rendere l’istante (unità di misura delle vite contemporanee) il più denso e intenso possibile, con qualunque mezzo (dalla trasgressione all’uso di sostanze).

  • Crisi del lavoro. Parallelamente all’ascesa del consumo si registra la discesa del lavoro che, per molte persone – anche se non per tutti – diventa un ambito secondario e in molti casi problematico. Tale effetto si produce su un duplice piano. Prima di tutto, il lavoro è in crisi per le mutate condizioni economiche che lo rendono precario e instabile. Il perdurare di problemi dal lato della sicurezza del lavoro, la larga diffusione del lavoro nero, la flessibilizzazione dell’occupazione, il ritorno di forme odiose di sfruttamento, la perdita di una scansione degli orari tale da permettere nonché una netta separazione tra lavoro e non lavoro sono tutti aspetti concreti di quel processo di flessibilizzazione di cui si è avuta ampia traccia negli ultimi due decenni. Al tempo stesso, la flessibilizzazione ha anche portato con sé profondi cambiamenti organizzativi, con un ciclo produttivo che sembra non potersi fermare mai e deve girare 24 ore su 24 e 365 giorni su 365 giorni all’anno. Senza più alcuna interruzioni in grado di rispettare il tempo altro: quello del riposo, degli affetti, della contemplazione. E poi, più radicalmente, il lavoro non è per tutti. Pensiamo in particolare all’ancora insufficiente capacità di valorizzare la risorsa femminile e quella giovanile. Su un secondo piano, la crisi del lavoro investe la sua componente espressiva ed esistenziale. Infatti, la progressiva svalutazione sociale del lavoro, la caduta di prestigio di tante professioni socialmente importanti (come quella dell’insegnante per esempio) lo rendono sempre meno un ambito su cui investire e sempre più un elemento puramente strumentale, spesso anche fonte di risentimento sociale. Per una quota crescente di popolazione, il lavoro non solo non è una fonte di realizzazione – cosa che probabilmente non è mai stata – ma stenta anche a rappresentare un valore esistenziale. E ciò sia per effetto delle mutazioni nell’esperienza del lavoro, ma anche per il rapporto tra il lavoro e le altre sfere di vita. L’individualizzazione incide anche sul senso del lavoro, dato che si lavora per sé stessi e più raramente per qualcun altro.

  • Crisi della famiglia. Il terzo polo della crisi è quello della famiglia. La tendenza generale è nota: si riduce il numero dei matrimoni, aumentano le convivenze, crescono separazioni e divorzi, calano le nascite, si diffondono le famiglie ricombinate (o multiple) e i bambini nati fuori dal matrimonio. Le ragioni sono molteplici e attengono ad aspetti culturali, economici e istituzionali. Di fatto, la crisi della famiglia è espressione di una più generale crisi del legame sociale. In un mondo in cui ci pensiamo come individui, in cui consumiamo e lavoriamo come individui, la famiglia perde terreno. Mancanza di solidarietà e sostegno per affrontare i momenti di crisi e fatica, individualismo, potenza di immaginari che stimolano la ricerca della realizzazione e del benessere individuale, caduta dei riferimenti condivisi capaci di orientare, sostenere e valorizzare l’impegno familiare, modalità abitative che rinforzano il senso di isolamento e rendono complessa la gestione della quotidianità, soprattutto in presenza di figli piccoli, sono solo alcune delle ragioni che spiegano la difficoltà attuale delle coppie di restare unite, la bassa natalità, il problema dell’assistenza agli anziani. Non che la famiglia sparisca. È che viene messa sotto attacco e svuotata dall’interno: se la disposizione di fondo è quella dell’apertura a nuove opportunità, allora tutto ciò che lega e impegna è visto come una fatica.
Chiara Giaccardi 
Mauro Magatti

Di fronte a questo quadro – che poggia sull’assioma implicito ma efficace del diritto al godimento individuale, nutre un individualismo esasperato e ostacola la costruzione di rapporti che non siano di strumentalità, violenza, o indifferenza – che la crisi economica rende sempre più manifesto, occorre prendere atto che la strada intrapresa va cambiata. Ce lo ricorda, ormai quasi quotidianamente, Benedetto XVI che insiste sulla necessità di lavorare per un nuovo modello di sviluppo. Da dove partire dunque se non dalla triade lavoro, festa, famiglia?

La famiglia, custode premurosa del legame tra le generazioni e fedele interprete delle esigenze dell’umano, è un luogo di resistenza nei confronti di queste derive che tendono a schiacciarla. La crisi della famiglia – come ogni crisi, un momento di “separazione”, “rottura”, ma anche decisione – è al tempo stesso occasione per la sua rinascita. Come dimostra il fatto che, nonostante le potenti forze della propaganda della libertà assoluta, molte persone continuano a intuire e a praticare la famiglia come un bene incommensurabile che va protetto e curato. E d’altra parte, sono ormai numerosi i modelli di famiglia allargata o ricostituita che provano a trasformare le ragioni della sua crisi in occasioni per inventare nuove forme di convivenza e convivialità.

Partire dalla famiglia significa riconoscere che l’umano ha le sue esigenze e i suoi tempi. Dalla famiglia si riconoscono i bisogni dei bambini, dei malati, degli adolescenti, degli anziani. Essa “baricentra” sia il lavoro sia la festa in una prospettiva che non è strettamente individualistica. Col suo contributo diventa possibile contrastare il “regime di equivalenza generalizzata” che cancella le distinzioni – comprese quelle tra tempo feriale/tempo festivo, lavoro/tempo libero, tempo sacro/tempo profano – in quanto considerate limitanti rispetto alla possibilità di attribuire qualunque significato possibile ai diversi momenti, e quindi lesive della libertà (intesa riduttivamente come possibilità di fare quello che piace o si ha voglia di fare). Rimettere al centro dell’attenzione la famiglia significa, in questo senso, riuscire a rimettere in discussione il modo in cui il lavoro e la festa vengono definiti nell’attuale modello di sviluppo. Vuol dire trovare un punto di riferimento sicuro per liberare questi ultimi due ambiti espressivi dalle riduzioni e derive che hanno assunto nella contemporaneità, andando a detrimento anziché a sostegno della famiglia, e cominciare a rigenerare il senso più autentico di questi due momenti.

Da un lato l’impegno e la dedizione, che comportano non solo l’espressione di sé e la strumentalità, ma anche la capacità di sacrificio (sacrum facere) – che include anche il saper far fatica per poter dare valore e che non può essere, se non artificialmente e ideologicamente, contrapposto alla realizzazione di sé; dall’altro la gioia che non è puro intrattenimento o ricerca ossessiva del godimento, ma soprattutto riconoscenza e riconoscimento (di un’interdipendenza, ma anche di una dipendenza, di un legame di gratitudine che innesca processi di restituzione non necessariamente simmetrica), e per questo apertura all’“altro” e all’“Altro”, al “tu” che ci sta di fianco e al “Tu” che ci costituisce come esseri pienamente umani, chiamandoci suoi figli.

Chiara Giaccardi
e Mauro Magatti

 
 
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