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lunedì 09 settembre 2024
 
Filosofia
 

Riscoprire la bellezza dell'essere, accanto a una donna o un amico

23/03/2017  Nel saggio "Accanto a lei" Francois Jullien afferma che la tendenza della presenza ridursi a cosa non è imputabile semplicemente a una mancanza del soggetto, ma a una faglia insita nell'essere stesso. Siamo dunque perduti? No, se la presenza si ritrae salvaguardandosi e il soggetto si decentra da se per cogliere l'inedita alterità dell'altro.

È un’esperienza quotidiana quella di assistere alla banalizzazione delle cose, alla caduta nella monotonia delle “presenze” che ci circondano. Detto in termini filosofici, sperimentiamo in maniera reiterata la banalizzazione dell’essere, il reificarsi della presenza, il suo rendersi opaca e perciò in-significante.

Tale considerazione non deve essere assunta solo in termini psicologici, assecondando un dilagante soggettivismo psicologico. Deve invece essere assunta anzitutto in termini ontologici: dicendo che la presenza si banalizza, che l’essere si reifica (Heidegger avrebbe detto: l’essere si riduce a semplice-presenza disponibile e manipolabile) non si fa riferimento soltanto al deteriorarsi delle relazioni interpersonali, ad esempio nel rapporto amoroso, con il passare del tempo, ma a un depotenziarsi dell’essere stesso. Questo processo di caduta nella monotonia, nell’opacità, nella banalità della presenza, una volta che è data, è solo per certi aspetti riconducibile ai limiti dell’io, tanto del soggetto che non sa più cogliere la novità della presenza, quanto del destinatario della sua attenzione, che perde slancio mano a mano che la sua corsa perde velocità.

Oltre questa dimensione psicologica, c’è tuttavia quella ontologica: tale faglia è insita nell’essere stesso, gli è strutturale, gli appartiene in maniera insuperabile. Questa interessante riflessione viene sviluppata da Francois Jullien, filosofo e sinologo, in una saggio breve e denso, intitolato Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima, edito da Mimesis.

Se le cose stanno come qui si sostiene, significa che siamo perduti, dal momento che è l’essere stesso a “dover” vivere tale caduta, che non sarebbe imputabile a un limite, ovviabile, del soggetto? Con un altro colpo di scena filosofico, l’autore, dopo averlo estromesso nella prima parte del ragionamento, rimette in gioco il soggetto o la persona. La possibilità di rendere nuovamente “splendente” o “intima” (con le parole dell’autore) la presenza che si è fatta opaca è infatti nelle mani del soggetto-persona. I Greci non avevano colto tale possibilità – osserva Jullien – perché erano abbagliati dall’essere. L’avvento del cristianesimo ha avuto l’effetto di riconoscere il ruolo del soggetto o persona nel suo rapportarsi all’essere.

Che cosa può dunque fare il soggetto-persona per “salvare” l’essere della reificazione, dal suo naturale degenerarsi in cosa in-significante? Laddove sa instaurare una relazione intima - concetto che sta agli antipodi dell’opaco – il soggetto-persona coglie l’altro in tutta la sua novità, a condizione di accettare e saper accogliere la sua alterità. È proprio l’apertura e la salvaguardia dell’alterità che dà una scossa alla nostra percezione dell’essere, rendendoci capaci di vedere nella presenza accanto a noi non una presenza opaca, bensì una presenza intima. Ciò può accadere nella relazione amorosa come nell’amicizia. Dovunque, aggiungiamo, ci sia una relazione aperta all’alterità e unicità dell’altro.

Quando due persone sanno guardarsi realmente negli occhi – filosoficamente: accogliere l’alterità e unicità ontologica dell’altro – accade un evento, si scatena un’energia inedita, grazie alla quale il soggetto esce da se stesso per entrare nell’altro o, meglio, in un noi.

Pare di capite che secondo l’autore nella relazione autentica che rivela l’essere in sé accadono dunque due movimenti fondamentali e simmetrici. Il primo è quello della presenza che svela se stessa solo ri-traendosi, trattenendosi: da non intendere soltanto come negarsi di un amante nella relazione amorosa, ad esempio, ma come preservarsi della presenza dall’uso e dal consumo, dal ridursi a cosa manipolabile, disponibile e perciò monotona, opaca e scontata. Alla ritrazione della presenza corrisponde specularmente un de-concidere da se stesso del soggetto, per porsi nella condizione di saper cogliere, oltre i pre-giudizi e le abitudini, la novità, l’alterità, l’essenza inedita dell’altro.

Un saggio davvero interessante.

(Nella foto: Gli amanti di René Magritte)

 
 
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