S’intitola “Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità”, dal 15 giugno sarà in discussione in aula alla Camera dei deputati e porterà con sé, comunque vada, un cambiamento radicale nel processo che finora ha regolato la segretezza del parto e la conoscenza delle origini da parte degli adottati.
Il dibattito, anche giuridico, ruota sulla definizione e la difesa di due situazioni contrapposte. Da una parte quella delle madri – i dati dicono che dagli anni Cinquanta ad oggi sono state circa 90mila – che in condizioni di estrema difficoltà hanno comunque messo al mondo i loro bambini ma deciso di non essere nominate nel certificato di nascita, con il proposito di uscire per sempre dalla loro vita. Dall’altra c’è quella dei figli alla ricerca delle loro origini, che rivendicano la possibilità di risalire comunque al nome della propria madre di nascita.
La legge sulle adozioni del 1984, rivista all’inizio del Duemila, ha creato una sorta di doppio binario: al compimento dei 25 anni è possibile fare una richiesta al Tribunale dei Minorenni per conoscere l’identità dei parenti biologici, ma nel caso particolare in cui la madre abbia scelto di non essere nominata, l’indagine non può proseguire: il segreto, secondo la norma, deve essere osservato per 100 anni.
Due sentenze, una della Corte Europea di Strasburgo nel 2012 e l’altra della Corte Costituzionale del 2013 hanno imposto una modifica legislativa, dichiarando l’incostituzionalità della procedura e aprendo alla possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare nuovamente la madre riguardo alla sua decisione.
E qui arriviamo all’oggi: sul tavolo della Commissione Giustizia si sono accumulate otto diverse proposte di legge, volte a ridisegnare il meccanismo di accesso alle origini. I testi sono stati unificati in uno solo, quello che sarà vagliato dall’Assemblea, ma il dibattito resta aperto.
I nodi da sciogliere riguardano in particolare il rispetto della privacy della donna nell’ambito di una procedura che potrebbe mettere i familiari al corrente di un segreto mai rivelato. Questo aspetto ha sollevato la preoccupazione di realtà come Anfaa, secondo cui solo la madre ha il diritto di ritornare sui suoi passi, ma non invece di essere ricercata su iniziativa del figlio. “Lo Stato ha fatto un patto con queste donne”, commenta Frida Tonizzo, consigliera dell’associazione. “Solo le titolari di quel diritto devono poter recedere, e non diventare l’obiettivo di una ricerca che, vista la distanza temporale e i diversi uffici da attivare nell’indagine, difficilmente potrà avere margini di segretezza. Inconcepibile, poi, la previsione che se la persona risulta deceduta i suoi file possano essere resi pubblici”. Particolarmente preoccupanti, secondo Anfaa, sono poi le conseguenze della “rintracciabilità” sulle attuali gestanti (sempre di più straniere) che nel timore di non restare più anonime potrebbero decidere di partorire fuori dagli ospedali, in condizioni rischiose.
Diametralmente opposta la posizione di Faegn, associazione figli adottivi e genitori naturali, che ha inviato al Presidente della Repubblica e al Governo una petizione “per il diritto alla conoscenza delle proprie origini”, ricordando le numerose legislazioni internazionali che riconoscono come diritto la piena cognizione di se stessi e sottolineando che la lunga attesa di una nuova legge, dopo la sentenza della Consulta, ha lasciato in una sorta di limbo giuridico molti cittadini non riconosciuti alla nascita.
“E’ un tema di una delicatezza e complessità estrema, perché ogni situazione è unica, si è svolta in circostanze particolari”, commenta Anna Rossomando, Pd, depositaria di una delle proposte di legge sul tema. “Guardo con grande rispetto a chi vuole conoscere le proprie origini, ma avrei preferito una soluzione più restrittiva di quella scelta nel testo base, offrendo prima di tutto alle donne la possibilità di avere un ripensamento, magari attraverso una campagna di comunicazione. Fino ad oggi è stato infatti impossibile, per le madri biologiche, ritornare sulla decisione presa. E questa è stata senz’altro una grande lacuna nella legge”.
Dall’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Giustizia in questi mesi, emerge anche un altro aspetto: dopo la sentenza della Corte Costituzionale alcuni Tribunali per i Minorenni, come quello di Firenze e quello di Torino, hanno già iniziato, di fatto, a effettuare alcuni interpelli di madri che avevano scelto l’anonimato, svolgendo indagini riservate e personalizzando la procedura rispetto alla situazione della donna. Ma la casistica della realtà va anche oltre. Nel caso del Tribunale fiorentino, come ha rivelato la stessa presidente, è arrivata anche una lettera spontanea da parte di una madre, che ha scritto: “Dichiaro fin da ora di revocare la mia volontà di anonimato, nel momento in cui mio figlio mi dovesse cercare”.