Il penultimo tassello lo ha incastonato al Cairo. L’ultimo a Bozzolo e a Barbiana. Eppure sono quattro anni ormai che papa Francesco utilizza il dialogo non solo come metodo virtuoso nei rapporti tra le persone e tra le istituzioni, ma come strategia decisa e decisiva della nuova semantica cattolica. Nell’idea di Francesco il dialogo non ha confini, il dialogo è un processo e lui ne sta alla guida, ma solo come direttore di un’orchestra. E un direttore non esiste senza l’orchestra. Pochi mesi fa incontrando gli scrittori della Civiltà Cattolica, la prestigiosa rivista dei Gesuiti diretta da padre Antonio Spadaro, il Papa fece tre raccomandazioni, che indicano a cosa deve badare un uomo di dialogo: “Inquietudine, incompletezza del pensiero, immaginazione”. Per questo ha sempre messo in guardia dal rischio dei pensieri rigidi, che è un dramma non solo per i credenti e ha un nome preciso: fondamentalismo.
Francesco teme i fondamentalismi, anche come paradigma delle analisi oltre che come strumento di lettura della realtà. Tutto deve essere aperto e nulla è già scritto e inchiodato in una fissità lontana dalla creatività evangelica. In una lettera ai sacerdoti scritta quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires nel 2007 avvisò che “bisogna stare attenti a che l’orizzonte non si avvicini a tal punto da diventare un recinto. L’orizzonte deve essere realmente aperto”. In un discorso ai catechisti nel 2013 ha spiegato che “Dio è creativo”, mai “rigido”. E’ in concetto che ha ripetuto molte volte. Per Bergoglio contano le parole “avventura” e “ricerca” di nuovi spazi da aprire a Dio. La logica che presiede il pontificato è quella della centesima pecora, quella che sta ancora fuori. Ecco perché parla fino allo sfinimento di “Chiesa in uscita”. All’opposto qualsiasi ragionamento che prevede la chiusura del recinto secondo Bergoglio cela molte insidie.
Il Papa non teme nulla, perché il Vangelo non teme nulla. La logica è quella di Gesù che vede Zaccheo curioso in cima all’albero e lo invita a scendere perché andrà a pranzo a casa sua. Francesco ogni giorno si autoinvita alla mensa di ognuno di noi. Nessuno escluso. Un giorno disse che sarebbe stato disposto anche ad incontrare i tagliagole dell’Isis. Per lui nessuna geopolitica è apocalittica. Eppure non significa che sia uno sprovveduto: critica la realtà (l’economia che uccide, per esempio) e allo stesso tempo aiuta a cercare nuove strade, scovando nuovi e non scontati punti di vista. Non c’è nulla che possa restare fuori dall’orizzonte del Vangelo.
Francesco su questo è intransigente. Un cattolicesimo identitario, una Chiesa che serra le fila di fronte ad un presunto caos del mondo moderno è una tentazione che continua ampiamente a criticare. Basti ricordare le sue decise parole contro la Chiesa come società dei “puri” e i sacerdoti, vescovi e cardinali “funzionari del sacro”. L’inquietudine è dunque la parola più amata da Francesco, che sovrintende ogni ragionamento e ogni strategia. A Firenze lo disse con estrema chiarezza anche alla Chiesa italiana: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta”. Chi erano don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani se non preti inquieti? E’ per questo motivo, prima di ogni altro, che Bergoglio è andato a pregare sulla loro tomba a Bozzolo e a Barbiana.