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domenica 26 marzo 2023
 
IL CASO
 

Ritmica, si faccia chiarezza per il bene delle atlete e di un'eccellenza italiana

04/11/2022  Lo sport di vertice ci ha insegna che le medaglie hanno un prezzo, ma se anche solo in un caso la disciplina sconfinasse nell'abuso quel prezzo sarebbe fuori scala

Il disagio che sta emergendo nel mondo della ginnastica ritmica ci deve interrogare, come persone, come appassionati di sport, come genitori, come cittadini, ma più di tutto come operatori dell’informazione. Non possiamo non chiederci che cosa avremmo dovuto vedere e non abbiamo visto, quali segnali non abbiamo saputo interpretare, mentre raccontavamo – quante volte lo abbiamo fatto – quella realtà come una eccellenza italiana, cosa che obiettivamente è stata. Ma a quale prezzo?

La giustizia ordinaria e sportiva faranno il loro corso, ma il disagio che sta emergendo a macchia d’olio non può essere ignorato, anche la Federazione italiana della ginnastica, una delle più antiche e gloriose d’Italia, ha dovuto prenderne atto se è vero che il centro di Desio nel quale da vent’anni si costruiscono gli inequivocabili successi della ritmica italiana a livello internazionale è stato commissariato. E se questo accade nel centro più importante, uno dei più importanti al mondo, è necessario che il mondo dello sport intero si interroghi senza infingimenti e senza nascondersi dietro foglie di fico.

Lo dobbiamo ai ragazzi che allo sport vengono affidati, come a una palestra di vita, lo dobbiamo alle famiglie che li affidano perché coltivino il loro sogno, lo dobbiamo al sistema Paese che di quei successi va fiero, lo dobbiamo anche a chi ha lavorato per costruire quei successi, perché ha diritto alla chiarezza. Non possiamo non chiederci, quale prezzo nascondano. Non possiamo non pretendere – anche al netto delle invidie che nella competizione dello sport di vertice è una variabile indipendente - che sia un prezzo equo.

Nessuna delle denunce che sono uscite, - in contesti diversi e a vari livelli - e che pure andrà nelle sedi appropriate verificata, può essere sottovalutata, se non altro per il fatto che stiamo parlando di una disciplina sportiva nella quale, per emergere, occorre investire fin da giovanissime: c’è di mezzo la salute fisica e psicologica e l’equilibrio di adolescenti e preadolescenti, qualcosa che non può essere sacrificato su nessun altare. Parliamo di diritti fondamentali.

Chiunque conosca la realtà dello sport d’alto livello sa che è un contesto che richiede disciplina e rigore: come diceva Gianni Mura nello sport non ci si può accontentare di apparire bisogna essere, dimostrare qui e ora quanto si vale sul campo. Tutto questo comporta, inutile negarlo, un investimento di grande, talvolta enorme non sempre proporzionatamente retribuito, impegno. Spesso comporta il sacrificio degli svaghi normali in adolescenza, per vivere focalizzati sull’obiettivo e consentire al corpo di mantenersi in piena efficienza. Da tempo è noto che questa efficienza non corrisponde esattamente con il “benessere”: lo sport di vertice non “fa bene” alla maniera di quello che i medici consigliano a tutti noi: logora, tanto.

Non possiamo nasconderci: è una storia di corpi sempre “sacrificati”. Quando si giunge al vertice, in tutte le discipline, più o meno traumatiche, il corpo è un motore che si porta al massimo dei giri, mettendone in conto l’usura. Una tendenza che lo sport contemporaneo, in cui il confronto internazionale si fa sempre più serrato, esaspera. Ma una cosa è l’incerto del mestiere, l’infortunio messo nel conto di un lavoro che si sa usurante e rischioso, altro è ergere a sistema la spinta del limite oltre la soglia della salute psicofisica, ancora altro è portare il confine della disciplina oltre la soglia dell’abuso. E se anche in un solo caso si fosse giunti a questo, all’umiliazione di una ragazzina - come parrebbe dalle denunce e sarebbe ben più di un caso - saremmo oltre. Oltre l’accettabile.

Mezzo secolo di pedagogia ci ha insegnato che non c’è niente di funzionale nell’umiliazione di chi impara. Esporre alla gogna una ragazza che non entra nei canoni di peso, sempre più stringenti fino all'esasperazione, fossero anche quelli tacitamente richiesti dagli standard internazionali per restare al passo delle migliori, è una modalità che non ha niente a che fare con la disciplina. È un’offesa, un’umiliazione e basta. Se è accaduto, non sarebbe dovuto accadere. Ed è bene dirlo, anche a scopo preventivo, subito – senza attendere i risultati del lavoro delle procure ordinarie e sportive – affinché non abbia ad accadere in futuro.

Se, come è probabile, lo standard della ginnastica ritmica internazionale sta alzando il tiro, rendendo dominante un modello che pretende perché si vinca che si alzi l’asticella fino a un limite che sconfina oltre l’equilibrio psicofisico delle sue praticanti, occorre che anche la Federazione internazionale faccia un passo indietro, o forse in avanti. Cambi le regole, ne imponga di più sane: fermi questo piano inclinato. Non sono vicende nuove nello sport, tante volte nella storia le Federazioni internazionali hanno cambiato le regole per prevenire abusi, per esempio la corsa all’agonismo sempre più precoce. Ma la storia insegna che se non ci si muove uniti dai vertici mondiali, una Federazione nazionale da sola può fare poco. Se il prezzo di un singolo modello virtuoso fosse rassegnarsi alla sconfitta, durerebbe lo spazio di un mattino. E sarebbe la prova che sta vincendo altro.

Una riflessione a parte meritano i medici: attorno agli adolescenti che praticano sport ci sono sempre. Hanno il dovere di vigilare, ma la storia degli scandali dello sport ci insegna, a cominciare da quello del doping, che non sempre sono occhiuti quanto dovrebbero.

Un’altra riflessione non rimandabile riguarda il modello, che, per esigenze di squadra, porta in alcuni sport giovanissimi atleti di interesse nazionale a vivere in ritiro permanente attorno ai centri federali. È una modalità funzionale a tenere insieme ad allenarsi persone di provenienze diverse. Ma nelle discipline in cui l’agonismo d’alto livello è precoce questo comporta una prematura uscita dal controllo diretto delle famiglie e l’uscita dalle mura domestiche già in preadolescenza. È essenziale, in questi casi, prevenire il rischio che il modello in cui si cresce diventi chiuso fino all’autoreferenzialità, perché diversamente il prezzo può essere l’inefficacia di ogni controllo esterno che non sia pro forma e la prevalenza del modello dominante distorsioni comprese. Il pericolo è convincersi, persino in buona fede, che fare come si è sempre fatto sia l’unica strada: perpetuare una tradizione anche se ferisce nella convinzione magari che si tratti di una severità “funzionale”. La storia dell’educazione è piena di modelli così nel mondo: dalla danza alla musica classica precoce, alle scuole esclusive più austere quanti esempi sono venuti alla luce.

È presto per dire se dentro il contesto della ritmica ci sia anche un problema di autoreferenzialità, ma per il bene delle giovani atlete, e anche per il bene di un’eccellenza italiana, abbiamo il dovere di pretendere che si vadano a vedere le carte, tutte. A costo di dover rinunciare a qualche medaglia in futuro. Perché delle nostre farfalle siamo fieri, ma non possiamo accettare, una volta che i riflettori saranno spenti e i lustrini dismessi, di consegnarle ancora giovanissime alla vita con le ali spezzate.

 
 
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