Un collage con i volti di alcune delle vittime del naufragio (copyright Sant'Egidio)
Il 3 ottobre, giorno del primo anniversario del tragico naufragio del 2013 al largo di Lampedusa, c'erano anche loro. Tre superstiti di quel viaggio maledetto in cui morirono 386 persone.
La Comunità di Sant'Egidio li ha voluti invitare alla veglia preghiera in memoria delle vittime, presieduta dal cardinale Vegliò insieme ad altri esponenti cattolici, evangelici e ortodossi. Un evento vissuto con grande partecipazione e commozione.
Sono tre giovani eritrei che, nei locali della Comunità di Sant'Egidio, ricordano e raccontano la loro odissea.
Tadese, 29 anni: “Nel 2011 ero militare, ma decisi di andarmene. Prima in Etiopia, quindi a Juba, in Sud Sudan. Da lì mi sono spostato verso Khartoum e infine ho raggiunto la Libia nell'agosto del 2013. All'inizio di ottobre è arrivato il momento per la traversata. Quando abbiamo capito che stavamo affondando abbiamo avuto paura di morire”. Maria Quinto, di Sant'Egidio, aiuta a mettere in fila i ricordi. Tadese era già mezzo annegato quando un pescatore lo ha afferrato per i pantaloni che ancora indossava e l'ha portato in salvo. Tadese è stato portato in elicottero in ospedale a Palermo. In questo anno Tadese è stato per qualche tempo in Svezia, ora è tornato in Italia e studia italiano con la speranza di restare nel nostro Paese. “In questi mesi ho incontrato due volte il papa”, racconta, “ed è stata una grande emozione. L'ho ringraziato perché è stato a Lampedusa, è stato l'unico a fare un gesto così importate”.
Merhawi, 24 anni, racconta: “Nel 2006 ho lasciato la scuola e sono andato sotto le armi. Poi ho disertato, sono andato in Sudan e lì mi hanno arrestato e respinto. Ho fatto due anni in carcere e nel febbraio del 2013 sono nuovamente andato in Sudan. Nel viaggio verso la Libia sono finito nelle mani dei trafficanti di uomini, prima in Ciad e poi in Mali. Mi chiedevano sempre soldi, prima 3.500 dollari, poi 1.600. Infine sono arrivato in Libia e mi sono imbarcato”. Ora Merhawi, che ha lo status di rifugiato politico, si trova in un centro di accoglienza in Norvegia e ha avuto il passaporto all'ultimo momento per poter partecipare alla cerimonia di Lampedusa.
Teame, 25 anni, porta attorno al collo la coroncina del Rosario che gli ha regalato papa Francesco. Ha un fisico atletico che certamente lo ha aiutato a sopportare le peripezie vissute fra il 2009 e il 2013. “Ero militare come i miei amici”, racconta, “ma soffrivo perché così non potevo studiare e in Eritrea non c'erano libertà e democrazia”. Così resta la fuga: Massaua, Asmara, l'Etiopia, il Sudan. “Pensavo di andare in Israele, in cerca di un lavoro sicuro e di un po' di benessere. Invece sono finito im mano ai predoni del Sinai. Ci offrivano la liberazione chiedendoci migliaia di dollari. Un giorno, insieme ai miei compagni, siamo riusciti a fuggire prima in Egitto, poi in Etiopia, quindi in Sudan.In Ciad ci hanno catturato altri trafficanti e sono riuscito a tornare libero dopo aver pagato 3.400 dollari”. Da lì infine l'imbarco sulle coste libiche e quel viaggio maledetto. Teame lo ha salvato un pescatore. Ha passato tre mesi a Lampedusa, poi a Roma presso Sant'Egidio e ora anche lui sta in un centro di accoglienza nel nord della Norvegia, vicino al Circolo Polare Artico. “Spero di trovare un lavoro”, dice, “voglio fare cose belle per gli altri, per ricambiare il bene ricevuto da quando sono arrivato qui da voi”.