Tutto è cominciato sette mesi fa nel Kazakistan dell'Ovest, a Zhanaozen, città di 90mila abitanti dove le temperature variano dai 40 gradi dell'estate ai - 40 dell'inverno. Qui hanno base molte delle società petrolifere presenti in questo immenso paese dell'Asia centrale, ricchissimo di materie prime e governato fin dal crollo dell'Unione Sovietica dal “presidente a vita” Nursultan Nazarbaev. A maggio, nel quasi totale silenzio dei media, migliaia di lavoratori hanno iniziato a protestare per salari più giusti.
Ufficialmente a Zhanaozen un operaio locale del settore petrolifero guadagna circa 1.000 dollari, una cifra ragguardevole per gli standard kazaki. E infatti nel resto del paese finora sono stati in pochi a sostenere la causa dei manifestanti. I lavoratori di Zhanaozen dicono però che le cose stanno diversamente: sostengono che le aziende pagano meno del dovuto. Non abituate a questo genere di contestazioni, alcune compagnie petrolifere hanno risposto alla protesta dei lavoratori kazaki licenziandoli. Migliaia di persone sono rimaste senza lavoro. Risultato? La piazza non si è svuotata. Anzi, si è riempita di rabbia: migliaia di persone senza più molto da perdere hanno deciso di proseguire ad oltranza la protesta. Nei giorni di massima partecipazione, secondo gli organizzatori, i manifestanti erano circa 16mila.
In questi mesi sono successe cose preoccupanti a Zhanaozen. Natalia
Sokolova, avvocato dei lavoratori, è stata condannata a 6 anni di
prigione per “istigazione al conflitto sociale”. Uno dei leader della
protesta, Zhalsylyk Turbaev, è stato trovato morto per motivi che
restano ancora oscuri. E così è accaduto anche alla figlia di uno dei
sindacalisti. Poi è arrivato il 16 dicembre, anniversario
dell'indipendenza kazaka dall'Unione Sovietica. Da questo momento la
storia diventa difficile da ricostruire. Di certo la festa per
l'indipendenza, con tanto di palco musicale e parate nazionalistiche, si
è trasformata nella protesta anti-governativa più eclatante degli
ultimi 20 anni.
Le autorità kazake dicono che la polizia ha ucciso 16 persone, ne ha
ferite 110 e arrestate una quarantina. Motivo: la città è stata messa a
ferro e fuoco da un gruppo di “hooligans”, “gente pagata per creare
disordini che ora verrà stanata e adeguatamente punita”, hanno spiegato
Nazarbaev e il suo staff. Molti abitanti di Zhanaozen e alcuni
oppositori sostengono però un'altra versione. I morti sono molti di più,
forse addirittura un centinaio, gli ospedali sono pieni di feriti e gli
arrestati, circa 400, sono sottoposti a tortura in carcere. Di certo ci
sono solo alcuni video postati su internet in cui si vede la polizia
sparare sui civili disarmati (http://www.youtube.com/watch?v=jiYn68tU5gg).
Impossibile verificare le notizie: dal 16 dicembre il regime kazako ha
imposto lo stato di emergenza a Zhanaozen impedendo di fatto l'accesso
ai giornalisti indipendenti. Un abitante di Zhanaozen che abbiamo
contattato ci ha raccontato sotto anonimato che tuttora, a oltre 10
giorni dagli scontri, gli Omon, gli agenti delle forze speciali kazake,
presidiano le strade controllando i documenti a chi si azzarda ad uscire
di casa. Non si può entrare o uscire dalla città. Molte persone sono
sparite. Dopo un iniziale blackout telefonico, ora le linee sono state
riaperte ma restano inaccessibili i siti Internet dell'opposizione oltre
a Twitter e Youtube.
Insomma, il “presidente a vita” Nazarbaev sta cercando di creare un
cordone sanitario intorno a Zhanaozen per evitare che la ribellione
possa contagiare il resto del paese. Per ora le proteste sono arrivate
ad Aktau, il capoluogo della regione. I manifestanti sono alcune
centinaia e chiedono al governo di ritirare i militari da Zhanaozen. Ma
da Akatu alla capitale Astana ci sono 2.600 chilometri di steppa da
percorrere. Privata di internet, la rivolta kazaka rischia di finire
sotto silenzio.
La prima reazione ha ricordato l'inizio della "primavera araba". Quando la rivolta di Zhanaozen ha trovato voce sui siti Internet di qualche giornale internazionale, Nursultan Nazarbaev ha addossato la colpa a non meglio precisate potenze straniere accusate di aver finanziato la rivolta. Proprio come avevano fatto prima di lui Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Poi però il presidente kazako, leader del più ricco stato dell'Asia centrale, ha cambiato improvvisamente strategia.
Dopo le richieste di Stati Uniti, Unione europea e Osce per un'inchiesta sulle violenze del 16 dicembre, Nazarbaev è volato ad Aktau, capoluogo della regione petrolifera di Mangistau, e ha indossato i panni del padre comprensivo, inconsapevole di quanto stava accadendo nella zona da sette mesi a questa parte. Ripreso dalle Tv di Stato ha dichiarato: «Le richieste dei lavoratori sono generalmente giustificate. I datori di lavoro non dovrebbero dimenticarsi che questi sono cittadini kazaki, non vengono mica dalla Luna. Per questo dovrebbero essere ascoltati e per quanto possibile sostenuti. Purtroppo questo non è successo».
Da qui la decisione di tagliare qualche testa, di addossare la
responsabilità sui suoi subordinati sperando così di sedare le
contestazioni a poco più di due settimane dalle elezioni parlamentari
che si terranno il 15 gennaio. A rimetterci il posto sono stati i
vertici di Kazmunaigas, l'azienda energetica di stato al centro delle
proteste, una specie di Gazprom del Kazakistan, paese che detiene il 3%
delle riserve mondiali di petrolio e che entro il 2020 dovrebbe
diventare uno dei cinque maggiori esportatori di oro nero al mondo. Dopo
averli accusati pubblicamente di non essere stati in grado di risolvere
una questione che da maggio coinvolge migliaia di lavoratori, Nazarbaev
ha fatto fuori l'amministratore delegato del gruppo, Bolat Akchulakov,
nominato solo tre mesi fa, e Askar Balzhanov, numero uno KazMunaiGas EP,
società del gruppo coinvolta direttamente dalle contestazioni.
Ma la vera sorpresa porta il nome di Timur Kulibayev, genero di
Nazarbaev, considerato uno degli uomini più ricchi del Kazakistan con
una fortuna stimata da Forbes in 1.3 miliardi di dollari. «Prenderò la
decisione di licenziare il capo di Samruk-Kazyna», ha detto Nazarbaev.
Il capo di Samruk-Kazyna, fondo sovrano che controlla tra le altre
società anche KazMunaiGas, è proprio Timur Kulibayev. L'annuncio
scompagina gli appunti degli analisti politici e mette in allerta i
governi di mezzo mondo da anni in affari con il regime kazako.
Kulibayev, che vanta anche un posto nel consiglio di amministrazione del
gigante russo Gazprom, era infatti indicato come il più probabile
successore del 71enne Nazarbaev.
Se è vero che le sue dimissioni per ora sono state solo annunciate (e
non eseguite come per gli altri due manager), è certo che la successione
di Nazarbaev, unico presidente del Kazakistan dai tempi
dell'indipendenza dall'Urss, è considerata dagli analisti il maggior
rischio per la stabilità del Paese, dove aziende e Stati stranieri hanno
investito in questi anni più di 120 miliardi di dollari. Soldi finiti
soprattutto nei pozzi di gas e petrolio, come quelli dell'italiana Eni
che è presente in due dei più grandi giacimenti kazaki, Kashagan e
Karachaganak. «Non dovremmo mai dimenticarci che la stabilità è la
condizione principale del successo del Kazakistan», ha ricordato
Nazarbaev durante la visita ad Aktau. Un monito che finora sembra aver
attirato l'attenzione soprattutto degli stati stranieri, decisamente più
morbidi nel criticare la repressione di Nazarbaev rispetto a quanto
fatto con alcuni regimi arabi.
«Quello che ho visto è un paese ricchissimo in termini di risorse naturali, dove la maggioranza degli abitanti è incredibilmente povera. È chiaramente visibile che la ricchezza è appannaggio di una ristretta elite di persone che può ad esempio permettersi di costruire palazzi sfavillanti nella capitale Astana, mentre i lavoratori che stanno in zone più isolate sono costretti a vivere in condizioni indecenti». Paul Murphy, 30 anni, è un eurodeputato irlandese del partito socialista, l'unico rappresentante dell'Ue ad aver visto con i propri occhi la protesta che da sette mesi coinvolge migliaia di lavoratori kazaki.
Lei a luglio è stato nella regione di Mangistau, dove ora è praticamente
impossibile entrare. Che tipo di protesta ha visto?
«Ho visto lavoratori che rischiano la vita quando scelgono di
organizzarsi per rivendicare i propri diritti. Ho avuto la possibilità
di parlare con centinaia di loro e le richieste mi sono sembrate
giustificate».
C'è solo la questione dello stipendio dietro le contestazioni?
«Quello è il motivo principale, perché loro accusano le compagnie di non
pagare gli stipendi concordati. Ma c'è anche la richiesta inascoltata
del diritto di rappresentanza sindacale: questi lavoratori chiedono di
poter formare dei sindacati indipendenti, dove i rappresentanti siano
eletti direttamente dai lavoratori e non scelti dall'azienda, come
invece avviene attualmente. Per questo la figura di Natalia Sokolova,
l'avvocato condannato a 6 anni di prigione, era molto importante per
loro. Inoltre i lavoratori hanno anche iniziato a chiedere la
nazionalizzazione delle risorse petrolifere della regione di Mangistau».
Da maggio ad oggi che cos'è cambiato per queste persone?
«E' cambiato soprattutto il livello di repressione. Più lo sciopero
continuava e più la repressione del regime aumentava. Poco dopo la mia
partenza dal Kazakistan un attivista sindacale è stato assassinato e
qualche giorno dopo alla figlia di un manifestante è capitata la stessa
sorte. Le case e le macchine degli attivisti sono state spesso
danneggiate».
Le autorità kazake hanno detto inizialmente che queste sono proteste
fatte da hooligans, gente interessata solo a creare violenza. Cosa ne
pensa lei che queste le persone le ha incontrate?
«È tipico dei regimi giustificare così le proteste. I lavoratori che ho
incontrato sono persone coraggiose che vogliono il rispetto dei loro
diritti. Erano molto ben organizzati, con discussioni democratiche e dei
comitati eletti a cui spettava il compito di prendere le decisioni. Non
possono essere definiti hooligans. E le affermazioni del regime sono
contraddette dai video stessi postati in rete».
Perchè secondo lei finora i leader dei paesi occidentali non si sono
esposti personalmente criticando quanto avviene in Kazakistan?
«Sfortunatamente molti di loro sono contenti di poter continuare a fare
affari con questo terribile regime, sono interessati al gas e al
petrolio del Kazakistan. I cittadini dei paesi occidentali dovrebbero
fare pressione sui loro governi affinché le atrocità che stanno
avvenendo vengano condannate».
Crede che la protesta possa espandersi nel resto del Paese?
«È ancora presto per dirlo. Di certo il governo è estremamente timoroso,
anche perché queste contestazioni si inseriscono in un quadro di
malcontento che coinvolge anche la Russia. Non dimentichiamoci che il
mese prossimo in Kazakistan ci saranno le elezioni. Ciò che bisognerà
vedere è se con la repressione di questi giorni i manifestanti verranno
intimoriti e abbandoneranno la piazza. In ogni caso, credo che viste le
condizioni di vita dei kazaki il governo prima o poi dovrà affrontare un
movimento di protesta di massa nell'intero Paese».
Al Parlamento europeo state facendo qualcosa per fare pressione sul
governo di Nazarbaev?
«Con il mio gruppo abbiamo scritto una lettera al presidente Nazarbaev
condannando il massacro di Zhanaozen. Inoltre stiamo cercando di far
inserire nell'agenda della prossima assemblea plenaria, in programma a
gennaio, un dibattito sui diritti umani. Se riusciremo nel nostro
intento, sarà possibile votare una risoluzione per condannare l'azione
del governo kazako».
Cosa dovrebbero fare secondo lei i leader dei Paesi europei?
«Bloccare immediatamente i negoziati in corso per il nuovo accordo di
partnership e cooperazione con il Kazakistan. Sarebbe incredibile se
questi colloqui continuassero mentre il regime viola così palesemente i
diritti umani basilari, le regole democratiche e i diritti dei
lavoratori che l'Unione europea afferma di difendere».