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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Rivolte, "primavera" in Kazakistan

30/12/2011  Nell'immenso Paese dell'Asia centrale, ricchissimo di materie prime e pozzi petroliferi, dilaga la protesta dei lavoratori. Stato d'emergenza, torture, punizioni. Un Presidente-padrone.

Tutto è cominciato sette mesi fa nel Kazakistan dell'Ovest, a Zhanaozen, città di 90mila abitanti dove le temperature variano dai 40 gradi dell'estate ai - 40 dell'inverno. Qui hanno base molte delle società petrolifere presenti in questo immenso paese dell'Asia centrale, ricchissimo di materie prime e governato fin dal crollo dell'Unione Sovietica dal “presidente a vita” Nursultan Nazarbaev. A maggio, nel quasi totale silenzio dei media, migliaia di lavoratori hanno iniziato a protestare per salari più giusti.

Ufficialmente a Zhanaozen un operaio locale del settore petrolifero guadagna circa 1.000 dollari, una cifra ragguardevole per gli standard kazaki. E infatti nel resto del paese finora sono stati in pochi a sostenere la causa dei manifestanti. I lavoratori di Zhanaozen dicono però che le cose stanno diversamente: sostengono che le aziende pagano meno del dovuto. Non abituate a questo genere di contestazioni, alcune compagnie petrolifere hanno risposto alla protesta dei lavoratori kazaki licenziandoli. Migliaia di persone sono rimaste senza lavoro. Risultato? La piazza non si è svuotata. Anzi, si è riempita di rabbia: migliaia di persone senza più molto da perdere hanno deciso di proseguire ad oltranza la protesta. Nei giorni di massima partecipazione, secondo gli organizzatori, i manifestanti erano circa 16mila.


In questi mesi sono successe cose preoccupanti a Zhanaozen. Natalia Sokolova, avvocato dei lavoratori, è stata condannata a 6 anni di prigione per “istigazione al conflitto sociale”. Uno dei leader della protesta, Zhalsylyk Turbaev, è stato trovato morto per motivi che restano ancora oscuri. E così è accaduto anche alla figlia di uno dei sindacalisti. Poi è arrivato il 16 dicembre, anniversario dell'indipendenza kazaka dall'Unione Sovietica. Da questo momento la storia diventa difficile da ricostruire. Di certo la festa per l'indipendenza, con tanto di palco musicale e parate nazionalistiche, si è trasformata nella protesta anti-governativa più eclatante degli ultimi 20 anni.

Le autorità kazake dicono che la polizia ha ucciso 16 persone, ne ha ferite 110 e arrestate una quarantina. Motivo: la città è stata messa a ferro e fuoco da un gruppo di “hooligans”, “gente pagata per creare disordini che ora verrà stanata e adeguatamente punita”, hanno spiegato Nazarbaev e il suo staff. Molti abitanti di Zhanaozen e alcuni oppositori sostengono però un'altra versione. I morti sono molti di più, forse addirittura un centinaio, gli ospedali sono pieni di feriti e gli arrestati, circa 400, sono sottoposti a tortura in carcere. Di certo ci sono solo alcuni video postati su internet in cui si vede la polizia sparare sui civili disarmati (http://www.youtube.com/watch?v=jiYn68tU5gg).


Impossibile verificare le notizie: dal 16 dicembre il regime kazako ha imposto lo stato di emergenza a Zhanaozen impedendo di fatto l'accesso ai giornalisti indipendenti. Un abitante di Zhanaozen che abbiamo contattato ci ha raccontato sotto anonimato che tuttora, a oltre 10 giorni dagli scontri, gli Omon, gli agenti delle forze speciali kazake, presidiano le strade controllando i documenti a chi si azzarda ad uscire di casa. Non si può entrare o uscire dalla città. Molte persone sono sparite. Dopo un iniziale blackout telefonico, ora le linee sono state riaperte ma restano inaccessibili i siti Internet dell'opposizione oltre a Twitter e Youtube.

Insomma, il “presidente a vita” Nazarbaev sta cercando di creare un cordone sanitario intorno a Zhanaozen per evitare che la ribellione possa contagiare il resto del paese. Per ora le proteste sono arrivate ad Aktau, il capoluogo della regione. I manifestanti sono alcune centinaia e chiedono al governo di ritirare i militari da Zhanaozen. Ma da Akatu alla capitale Astana ci sono 2.600 chilometri di steppa da percorrere. Privata di internet, la rivolta kazaka rischia di finire sotto silenzio.

La prima reazione ha ricordato l'inizio della "primavera araba". Quando la rivolta di Zhanaozen ha trovato voce sui siti Internet di qualche giornale internazionale, Nursultan Nazarbaev ha addossato la colpa a non meglio precisate potenze straniere accusate di aver finanziato la rivolta. Proprio come avevano fatto prima di lui Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Poi però il presidente kazako, leader del più ricco stato dell'Asia centrale, ha cambiato improvvisamente strategia.

Dopo le richieste di Stati Uniti, Unione europea e Osce per un'inchiesta sulle violenze del 16 dicembre, Nazarbaev è volato ad Aktau, capoluogo della regione petrolifera di Mangistau, e ha indossato i panni del padre comprensivo, inconsapevole di quanto stava accadendo nella zona da sette mesi a questa parte. Ripreso dalle Tv di Stato ha dichiarato: «Le richieste dei lavoratori sono generalmente giustificate. I datori di lavoro non dovrebbero dimenticarsi che questi sono cittadini kazaki, non vengono mica dalla Luna. Per questo dovrebbero essere ascoltati e per quanto possibile sostenuti. Purtroppo questo non è successo».


Da qui la decisione di tagliare qualche testa, di addossare la responsabilità sui suoi subordinati sperando così di sedare le contestazioni a poco più di due settimane dalle elezioni parlamentari che si terranno il 15 gennaio. A rimetterci il posto sono stati i vertici di Kazmunaigas, l'azienda energetica di stato al centro delle proteste, una specie di Gazprom del Kazakistan, paese che detiene il 3% delle riserve mondiali di petrolio e che entro il 2020 dovrebbe diventare uno dei cinque maggiori esportatori di oro nero al mondo. Dopo averli accusati pubblicamente di non essere stati in grado di risolvere una questione che da maggio coinvolge migliaia di lavoratori, Nazarbaev ha fatto fuori l'amministratore delegato del gruppo, Bolat Akchulakov, nominato solo tre mesi fa, e Askar Balzhanov, numero uno KazMunaiGas EP, società del gruppo coinvolta direttamente dalle contestazioni.

Ma la vera sorpresa porta il nome di Timur Kulibayev, genero di Nazarbaev, considerato uno degli uomini più ricchi del Kazakistan con una fortuna stimata da Forbes in 1.3 miliardi di dollari. «Prenderò la decisione di licenziare il capo di Samruk-Kazyna», ha detto Nazarbaev. Il capo di Samruk-Kazyna, fondo sovrano che controlla tra le altre società anche KazMunaiGas, è proprio Timur Kulibayev. L'annuncio scompagina gli appunti degli analisti politici e mette in allerta i governi di mezzo mondo da anni in affari con il regime kazako. Kulibayev, che vanta anche un posto nel consiglio di amministrazione del gigante russo Gazprom, era infatti indicato come il più probabile successore del 71enne Nazarbaev.


Se è vero che le sue dimissioni per ora sono state solo annunciate (e non eseguite come per gli altri due manager), è certo che la successione di Nazarbaev, unico presidente del Kazakistan dai tempi dell'indipendenza dall'Urss, è considerata dagli analisti il maggior rischio per la stabilità del Paese, dove aziende e Stati stranieri hanno investito in questi anni più di 120 miliardi di dollari. Soldi finiti soprattutto nei pozzi di gas e petrolio, come quelli dell'italiana Eni che è presente in due dei più grandi giacimenti kazaki, Kashagan e Karachaganak. «Non dovremmo mai dimenticarci che la stabilità è la condizione principale del successo del Kazakistan», ha ricordato Nazarbaev durante la visita ad Aktau. Un monito che finora sembra aver attirato l'attenzione soprattutto degli stati stranieri, decisamente più morbidi nel criticare la repressione di Nazarbaev rispetto a quanto fatto con alcuni regimi arabi.

«Quello che ho visto è un paese ricchissimo in termini di risorse naturali, dove la maggioranza degli abitanti è incredibilmente povera. È chiaramente visibile che la ricchezza è appannaggio di una ristretta elite di persone che può ad esempio permettersi di costruire palazzi sfavillanti nella capitale Astana, mentre i lavoratori che stanno in zone più isolate sono costretti a vivere in condizioni indecenti». Paul Murphy, 30 anni, è un eurodeputato irlandese del partito socialista, l'unico rappresentante dell'Ue ad aver visto con i propri occhi la protesta che da sette mesi coinvolge migliaia di lavoratori kazaki.

Lei a luglio è stato nella regione di Mangistau, dove ora è praticamente impossibile entrare. Che tipo di protesta ha visto?
   «Ho visto lavoratori che rischiano la vita quando scelgono di organizzarsi per rivendicare i propri diritti. Ho avuto la possibilità di parlare con centinaia di loro e le richieste mi sono sembrate giustificate».

C'è solo la questione dello stipendio dietro le contestazioni?
   «Quello è il motivo principale, perché loro accusano le compagnie di non pagare gli stipendi concordati. Ma c'è anche la richiesta inascoltata del diritto di rappresentanza sindacale: questi lavoratori chiedono di poter formare dei sindacati indipendenti, dove i rappresentanti siano eletti direttamente dai lavoratori e non scelti dall'azienda, come invece avviene attualmente. Per questo la figura di Natalia Sokolova, l'avvocato condannato a 6 anni di prigione, era molto importante per loro. Inoltre i lavoratori hanno anche iniziato a chiedere la nazionalizzazione delle risorse petrolifere della regione di Mangistau».

Da maggio ad oggi che cos'è cambiato per queste persone?
   «E' cambiato soprattutto il livello di repressione. Più lo sciopero continuava e più la repressione del regime aumentava. Poco dopo la mia partenza dal Kazakistan un attivista sindacale è stato assassinato e qualche giorno dopo alla figlia di un manifestante è capitata la stessa sorte. Le case e le macchine degli attivisti sono state spesso danneggiate».

Le autorità kazake hanno detto inizialmente che queste sono proteste fatte da hooligans, gente interessata solo a creare violenza. Cosa ne pensa lei che queste le persone le ha incontrate?
    «È tipico dei regimi giustificare così le proteste. I lavoratori che ho incontrato sono persone coraggiose che vogliono il rispetto dei loro diritti. Erano molto ben organizzati, con discussioni democratiche e dei comitati eletti a cui spettava il compito di prendere le decisioni. Non possono essere definiti hooligans. E le affermazioni del regime sono contraddette dai video stessi postati in rete».

Perchè secondo lei finora i leader dei paesi occidentali non si sono esposti personalmente criticando quanto avviene in Kazakistan?
   «Sfortunatamente molti di loro sono contenti di poter continuare a fare affari con questo terribile regime, sono interessati al gas e al petrolio del Kazakistan. I cittadini dei paesi occidentali dovrebbero fare pressione sui loro governi affinché le atrocità che stanno avvenendo vengano condannate».

Crede che la protesta possa espandersi nel resto del Paese?
   «È ancora presto per dirlo. Di certo il governo è estremamente timoroso, anche perché queste contestazioni si inseriscono in un quadro di malcontento che coinvolge anche la Russia. Non dimentichiamoci che il mese prossimo in Kazakistan ci saranno le elezioni. Ciò che bisognerà vedere è se con la repressione di questi giorni i manifestanti verranno intimoriti e abbandoneranno la piazza. In ogni caso, credo che viste le condizioni di vita dei kazaki il governo prima o poi dovrà affrontare un movimento di protesta di massa nell'intero Paese».

Al Parlamento europeo state facendo qualcosa per fare pressione sul governo di Nazarbaev?
   «Con il mio gruppo abbiamo scritto una lettera al presidente Nazarbaev condannando il massacro di Zhanaozen. Inoltre stiamo cercando di far inserire nell'agenda della prossima assemblea plenaria, in programma a gennaio, un dibattito sui diritti umani. Se riusciremo nel nostro intento, sarà possibile votare una risoluzione per condannare l'azione del governo kazako».

Cosa dovrebbero fare secondo lei i leader dei Paesi europei?
   «Bloccare immediatamente i negoziati in corso per il nuovo accordo di partnership e cooperazione con il Kazakistan. Sarebbe incredibile se questi colloqui continuassero mentre il regime viola così palesemente i diritti umani basilari, le regole democratiche e i diritti dei lavoratori che l'Unione europea afferma di difendere».

 
 
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