Giacomo Rizzolatti con Francesco De Gregori. In alto: Rizzolatti.
Dalle stanze grigie e anonime
dell’Università di Parma
spunta un professore che…
Statura media, capelli e baffi
bianchi ondulati, occhi intelligenti
e sguardo simpatico:
sembra Albert Einstein. Naturalmente,
non è il genio della
relatività: è Giacomo Rizzolatti, 77 anni,
docente di Fisiologia umana a Parma, fra
i maggiori neurologi al mondo, grazie alla
scoperta dei neuroni specchio, che gli
è valsa prestigiosi premi internazionali
e la candidatura al Nobel.
Nella conversazione
per nulla scontata con Famiglia Cristiana,
partendo dalla sua ricerca ha finito
con il parlare di giovani, università, libertà,
nipotini… E di come il comandamento
evangelico “Ama il prossimo tuo”
sia inciso nella nostra natura…
Lei è nato a Kiev nel ’37, allora
Unione Sovietica…
«Mio bisnonno emigrò in Russia alla
fine dell’800, dove fece fortuna. Con
la Rivoluzione, i suoi beni vennero nazionalizzati,
ma non tutti, così la mia famiglia
decise di restare. Le cose cambiarono
alla fine degli anni ’30, quando i
rapporti con l’Italia si incrinarono e
fummo invitati ad andarcene».
Come decise di studiare neurologia?
«I miei genitori erano medici e la medicina
attirava anche me. Al liceo è sorto
in me il desiderio di conciliarla con la filosofia
e mi sono iscritto a Neurologia».
Facciamo un salto al ’92, l’anno della
scoperta dei neuroni specchio.
«Fu preceduta da un lungo lavoro sulle
proprietà funzionali della corteccia
motoria della scimmia, basata su un approccio
etologico. Anziché limitarci allo
studio del sistema motorio, ci chiedemmocome
si comportano i neuroni motori
nella vita di tutti i giorni. Come si passa
dalla vista dell’oggetto all’azione? Rilevammo
che, di fronte al cibo, una certa
percentuale di neuroni motori si attivava.
La scimmia era immobile, ma il programma
motorio era pronto. Poi notammo,
con sorpresa, che alcuni neuroni si
attivavano non alla vista del cibo, ma in
seguito al movimento che faceva lo sperimentatore
per afferrarlo. Chiamammo
questo straordinario tipo di neuroni
“neuroni specchio”. In seguito, abbiamo
verificato questa osservazione. Lo studio
fondamentale sui neuroni specchio è stato
pubblicato nel ’96 sulla rivista Brain».
Perché è così importante?
«Uno psichiatra svizzero mi ha confidato:
è l’unica scoperta in ambito neurologico
che ci ha permesso di cambiare
il modo di pensare in psicologia e psichiatria.
Infatti svela che noi riconosciamo
gli altri in base a un meccanismo
empatico, non in base a ragionamenti».
Rappresentazione dei meccanismi neurologici alla base dell'empatia.
La scoperta ha portato a una visione
più completa della persona?
«Ha dimostrato che possiamo capire
gli altri non solo come “oggetti” mediante
un processo logico-induttivo, ma anche
come “persone”, partendo da noi
stessi. La natura ci ha dotato di un meccanismo
grazie al quale tu ed io siamo
in qualche maniera la stessa cosa, l’io e
gli altri in certi momenti coincidono».
Infatti i neuroni specchio vengono
associati all’empatia…
«Dopo la scoperta dei neuroni specchio
nel sistema motorio abbiamo voluto
vedere se quei meccanismi valessero
anche per le emozioni. Era così: capisco
il dolore di un altro non solo mediante
un’inferenza logica, ma anche perché ho
un meccanismo che me lo fa sentire dentro
di me. Se assisto a un incidente stradale,
si attivano nel mio cervello delle
aree che mi fanno percepire quell’incidente
come se fosse capitato a me. Il comandamento
“Ama il prossimo tuo” rinforza
una dinamica naturale, insita in
noi stessi: è la sottolineatura di qualcosa
che è già dentro di noi. Il messaggio cristiano
rafforza una verità naturale che
può essere compromessa dalla società».
Sembra che i neuroni specchio abbiano
fatto luce anche sull’autismo…
«I bambini autistici sono di due categorie:
quelli che hanno un’intelligenza
normale e quelli che non ce l’hanno. Dire
ai genitori di questi ultimi che abbiamo
trovato la soluzione, significa ingannarli.
Le prospettive aperte dai neuroni
specchio riguardano quei bambini autistici
che hanno abilità intellettive, masono
inadatti ai rapporti sociali. L’autistico
non è matto, soffre di un deficit neurologico.
Stiamo analizzando le carenze motorie
per verificare se, migliorando lamotricità,
si hanno ripercussioni cognitive».
Lei studia la mente da sessant’anni: che cosa l’ha affascinata di più?
«L’empatia. Il nostro cervello non è
una macchina che elabora dati come un
computer, è una macchina con un corpo
che instaura relazioni con gli altri. Ciò
che siamo ben lontani dal comprendere
è l’autocoscienza: come è possibile che
la materia sia cosciente di sé stessa?».
Nello sviluppo conta di più la biologia,
come nasciamo, o l’educazione?
«Come per il corpo, anche la mente
migliora con l’allenamento. Se una persona
ha un talento per la musica e la studia
seriamente, magari diventerà un
compositore o un direttore d’orchestra.
Se invece vive in un ambiente povero di
stimoli, suonerà nella banda del paese».
Siamo liberi o il risultato di una serie
di funzioni naturali…
«Nasciamo dotati di certi meccanismi
e chi ne è privo soffre di qualche patologia,
come gli schizofrenici o gli autistici.
Poi, però, subentrano infiniti fattori
di cambiamento, di tipo genetico, risalenti
al rapporto madre-figlio, dovuti
all’ambiente in cui cresce... Cosa significa
scegliere? Si parla di liberalizzare le
droghe, sarebbe una follia. Il tossicodipendente
ha la possibilità di smettere
di drogarsi, soprattutto se c’è il sostegno
dei genitori, ma non tutti sono in
grado di farlo. Non sono più liberi».
Si è mai chiesto se all’origine di
tutto ci sia un disegno, un senso?
«Va distinto lo scienziato dall’uomo.
Il primo deve attenersi al nesso causa-effetto.
Quello che pensa come persona è
un fatto privato. Conosco scienziati cattolici
ed ebrei, altri atei. Si tratta di posizioni
personali, che nulla hanno a che fare
con la scienza. In quanto scienziato,
nessuno ha diritto di pontificare sull’esistenza
o non esistenza di Dio».
E il Rizzolatti privato?
«Spera che esista un mondo al di là
di questo, perché sarebbe bello che fosse
così. Ma non ha certezze».
Ha detto che destinerà parte dell’ultimo
premio ricevuto alla ricerca…
«Sì, ma sono disperato: l’università
non ci dà una lira, paga solo gli stipendi.
Se non avessimo fondi europei e privati
non sapremmo come fare ricerca. La burocrazia
è soffocante. Le racconto un solo
episodio: una volta al mese un collega
di Milano veniva qui a Parma per confrontare
le nostre ricerche e, a pranzo, gli
offrivo un panino, segnandolo nelle spese
di istituto. Sono stato bloccato, perché
dovevo chiedere l’autorizzazione e presentare
dei preventivi. Per un panino…».
Non investiamo nella cultura…
«A Copenaghen, durante la cerimonia
del Brain Prize, ero seduto vicino al
ministro dell’Istruzione danese, una donna
– né velina, né una delle figurine renziane
– che mi ha raccontato che il suo
Paese investe il 2,5 del Pil, contro lo 0,8
italiano. Ciononostante, era preoccupata,
perché la Cina investe quasi l’otto per
cento. E l’otto per cento di un Pil enorme
come quello cinese è una cifra spaventosa:
mirano a trasformare il “made
in China” in “thought in China”. In Italia
è un disastro. E i giovani…».
Fanno bene ad andarsene all’estero?
«Cos’altro possono fare? È un peccato,
perché in alcuni centri si può lavorare,
ma in condizioni precarie... Alcuni ricercatori
con uno stipendio di mille euro
al mese a volte sono costretti ad anticipare
anche 200 euro di tasca propria
per non interrompere la loro attività».
Se fosse il ministro dell’Università,
quale riforma promuoverebbe?
«Nessun docente dovrebbe essere di
ruolo per sempre. Non verrebbe licenziato,
ma ogni cinque anni dovrebbe sottostare
a un controllo: se ha lavorato bene,
mantiene la carica, altrimenti viene
progressivamente emarginato. Niente
aumenti automatici, partecipazione
bloccata al Consiglio di facoltà...».
Chi l’ha accompagnata a ritirare il
Brain Prize a Copenaghen?
«La moglie, i figli e i nipoti».
Quanti nipoti ha?
«Cinque, la più grande ha 16 anni».
Sono orgogliosi del nonno?
«Abbastanza. Ma il nonno è sempre
il nonno, per loro è più importante che
giochiamo insieme».