Premetto che l’immagine (qui accanto, in piccolo) non mi fa impazzire. Niente di personale. Sono piuttosto un amante dell’iconografia classica e ho altri gusti artistici. Nondimeno, ho scorto di sfuggita sui social un articolo con una raffica animata di commenti e di discussioni (per non dire anatemi). Ora, come scelta di pace mentale e dello spirito, mi tengo ben lontano dall’entrare nei dibattiti social, preferendo – per carattere e per formazione – le conversazioni lente, ponderate e faccia a faccia, convinto che le cose importanti hanno bisogno di essere serbate e non sparate.
Nello spazio ristretto di quest’articolo, non intendo venir meno alla mia abitudine entrando nel girone dei leoni (da tastiera)… però, vorrei riflettere con voi sull’opportunità o meno di parlare della “vulnerabilità” cristica. Tra i tanti commenti, rapidi a lanciare anatemi, ho scorto alcuni che attaccavano la vulnerabilità raffigurata come sintomo di mancanza di fede. Ecco, queste affermazioni e tanti similari mi sembrano tutt’altro che vicine alla retta fede che intendono difendere.
Sono d’accordo sul fatto che Gesù è medico delle anime. Anzi, sono uno che cita spesso la bella espressione di sant’Efrem il Siro: Gesù (eucaristico) quale «farmaco di vita». Ma Gesù era anche uomo, vero uomo, «in tutto tranne il peccato». Per questo, lo zelo nell’enunciare la sua divinità non deve farci obliare la sua umanità, tentazione eretica che la Chiesa ha sempre combattuto, sin dagli albori del cristianesimo. Gesù Cristo vero uomo non nega nulla della sua divinità, ma ci dice esattamente quanto è divinamente bello il suo «amore folle» (espressione patristica) che l’ha spinto ad assumere la nostra umanità senza sconti e senza scorciatoie. E proprio perché Dio ci ha salvato assumendo la nostra umanità, non c’è nulla di eretico nel raffigurare con un’immagine la sua prossimità a noi, lui che «ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Matteo 8,17).
Piuttosto, lasciamoci scuotere da questa prossimità con l’avvicinarsi della Settimana Santa affinché il fare memoria sia qualcosa di più: sia un memoriale, un ri-presentare gli eventi dell’amore che ci ha salvato, scendendo, assumendoci ed elevandoci. Che la contemplazione di questa prossimità ci faccia innamorare di più di questo «Sommo Sacerdote» che ha scelto di «prendere parte alle nostre debolezze» (Ebrei 4,15).