C'è chi fa a botte con la vita
e chi la affronta con
saggezza. Roberto Camelia,
siracusano del 1976,
un diploma in ragioneria e un passato
da pugile, fa parte della seconda categoria.
È stato il primo arbitro di boxe
al mondo con una protesi alla gamba.
È presidente della nascente associazione
Sportivamente Onlus, per aiutare i
bambini con difficoltà motorie ed economiche
a inserirsi nello sport ed è dotato
di una grinta da combattente vero.
Ricordi come avvenne l’incidente
che ti ha portato alla protesi?
«Era il 2 gennaio 2013 e mi ero fermato
a soccorrere una persona che con l’auto
aveva sfondato un muretto a secco,
finendo in un campetto. Avevo appena
aiutato la persona a uscire dal mezzo
quando una seconda macchina, forse
a causa del manto stradale umido, ha
effettuato la stessa manovra finendomi
addosso. Subito si è capito che la mia
situazione era grave e nella notte, all’ospedale
di Siracusa, mi hanno amputato
la gamba sinistra sotto il ginocchio».
Quanto tempo è servito per recuperare
la tua autonomia?
«È stato un percorso travagliato. Sono
stato in coma, ho dovuto fare ventitré
giorni di camera iperbarica e, quando
mi hanno dimesso, ho dovuto sottopormi
ad altri quattro mesi di riabilitazione
vicino a Bologna, facendo un’enorme
esperienza di vita grazie alla conoscenza
di persone che avevano subito le
esperienze più disparate. Solo ai primi
di ottobre di quell’anno ho avuto la mia
bella protesi d’ultima generazione, che
si fissa alla gamba con un meccanismo
pneumatico che mi fa sentire l’arto come
fosse mio».
Dopo questo incidente, è stato
difficile tornare sul ring?
«Io ero arbitro di pugilato dal 2010, ma
bisognava dimostrare che, con la protesi,
potessi ancora essere tempestivo
e accorto nel salvaguardare l’integrità
dei pugili. Così, la federazione ha preteso
che superassi un test, che ho passato,
e a giugno del 2014 sono tornato sul
quadrato. Il primo arbitro di boxe disabile
al mondo».
Com’eri arrivato al pugilato?
«Tramite mio padre, che era un appassionato,
tant’è che ho provato a fare il
pugile fino all’età di sedici anni, quando
ho abbandonato perché era troppo
impegnativo. Ho praticato altri sport e
alla fine ho scoperto la mia vera passione,
così ho seguito il corso per arbitri di
boxe che mi ha abilitato nel 2010».
In questo ambiente, dove conta
moltissimo il fisico, ti senti in
qualche modo diverso?
«Intanto, mi sento fortunato di poter
essere ancora parte del giro e, per questo, devo riconoscenza ai vertici
federali.
E poi mi sento al pari degli altri.
Fra l’altro, se i pugili non conoscono la
mia storia non notano nessuna differenza.
E, siccome io ci scherzo sopra,
quando vengono a conoscerla arrivano
a toccarmi! Insomma, si vive il tutto
con molta ironia».
Ti trovi più a tuo agio sul ring o
per strada?
«Sia sul ring, sia per strada. Il ring rappresenta
solo una parte della mia vita.
Sono a mio agio anche mentre lavoro».
Ecco, dato che ne parli: qual è la
tua professione attuale?
«Mi occupo di sensibilizzare su sport
e disabilità. Faccio delle convention e
tengo degli interventi nelle scuole. In
verità, però, sono in cerca di un’occupazione
vera e propria, in quanto con
l’incidente ho dovuto chiudere la mia
società di prodotti dolciari e per la panificazione».
Fare l’arbitro vuol dire anche sapersi
imporre: nella vita sei uno
che si impone?
«Il mio carattere è positivo e propositivo
e, a tratti, autorevole. Si sposa quindi
bene con la figura dell’arbitro. E poi
sono un ottimista».
Con tutte queste doti che hai, potresti
fare mille cose: che cosa, invece,
c’è di nobile a condurre due
persone che fanno a pugni?
«Il pugilato è uno degli sport più antichi.
È un onore poter condurre due
uomini che cercano di avere la meglio
uno sull’altro in un’attività dove contano
l’intelligenza tattica, la tecnica e non
solo la forza».
Nella vita, tu hai mai fatto a pugni
con qualcuno?
«Faccio a pugni con la mancanza d’interesse
che la gente ha per certi argomenti
che riguardano tutti. Io dico sempre
ai giovani che gli altri siamo noi, e
che tutto quello che ora ci appare lontano
un domani può riguardarci personalmente».
La vita è stata violenta con te, come
le hai risposto?
«Con un sorriso. Secondo me il sorriso
è la chiave di volta della vita».
Cosa spera Roberto?
«Di trovare l’anima gemella. E che la
gente guardi un po’ meno la televisione
e di più al suo prossimo. Che si stia meno
al computer e si scriva una lettera in
più o si stia con gli amici. Che ci sia meno
egoismo, che non porta a nulla».