L’attore del melodrammone che mette d’accordo nonne e nipotine, forse esausto dopo una giornata passata a rispondere alle domande nella sede della casa di produzione di Le tre rose di Eva, in onda su Canale 5, confessa subito un lato del carattere che poco s’addice al cliché del sex symbol in cui l’hanno incastrato: «Sono pigrissimo, l’attrazione del divano quando si può è fatale», dice Roberto Farnesi.
Poi attacca a parlare della sua nuova avventura: un ristorante in zona Pisa, dove è rimasto ad abitare. Le materie prime, la scelta dei menù, il socio che capisce di numeri, Bastianich che ha trovato il format giusto in Tv, il cibo che è diventato il tema del momento.
Come fa un pigro a infilarsi nella vita di un personaggio come Alessandro Monforte, al quale succedono un mare di cose?
«Fa parte del mestiere dell’attore: per me il set è una droga, mi prende tantissimo».
Però ci vuole un certo spirito di immedesimazione per entrare nella pelle di uno, padre di una bambina, che vede ricomparire la sua donna che credeva morta…
«Chiariamo che non ci sono resurrezioni, di più non svelo per non rovinare la sorpresa. L’aspetto psicologico è la cosa interessante: non è come riportare indietro un orologio, la vita va avanti, elabora quello che credeva un lutto. Un bel pasticcio emotivo che si complica quando c’è un bambino».
Una fiction che arriva alla quarta serie, che adotta questo espediente narrativo per non finire, è una fiction riuscita...
«Funziona il mix: c’è un po’ di dramma, un po’ di melò, un po’ di giallo. In questa società stressatissima la gente ha anche voglia di staccare per 80 minuti con una storia di pura evasione. Mi piace il fatto che coinvolga generazioni molto diverse, almeno a giudicare dai complimenti che mi arrivano. Le tre rose di Eva non manda messaggi, intrattiene soltanto. Credo che ce ne sia bisogno in un panorama in cui ricorrono spesso gli stessi temi».
Suo padre era un militare: se avesse avuto il tempo di vederlo, come avrebbe preso un figlio che ha cominciato con i fotoromanzi?
«È mancato prima che iniziassi, ma era un uomo d’ordine sui generis: il mondo dello spettacolo lo affascinava. Credo che avrebbe capito che era un modo per mantenersi a Roma, altri giovani attori magari un po’ meno avvenenti lavoravano nei bar».
A parte le parentesi lavorative, è rimasto sempre a Pisa. Non ha subìto il fascino della grande città?
«Non sono un mondano, la mia quotidianità è normalissima».
Se l’immaginava così la vita dell’attore?
«Il lavoro sì, come dicevo il set mi piace moltissimo anche se è stressante, comunque non quanto andare in fabbrica alle sei di mattina. Non immaginavo lo stress fuori dal set: il lavoro dell’attore è molto precario e oggi si guadagna meglio che con un mestiere ordinario, ma meno che in passato».
Quando le chiedevano che cosa volesse fare da grande che cosa rispondeva?
«Non avevo le idee chiare. Se non avessi fatto l’attore forse sarei diventato un veterinario, amo molto gli animali. O magari un militare, come mio padre: aeronautica, in quel caso, per il fascino del volo».
In passato ha scritto un soggetto per un film intitolato Infernet: per uno famoso i social sono un inferno?
«Sono poco tecnologico, uso alcuni social network per necessità professionale, ma in quel film pensavo tutt’altro: al pericolo della Rete per i giovanissimi. Lì dentro c’è il rischio che vedano cose terribili che turberebbero l’adulto più scafato».
Si avvicina ai 50, manca poco al tempo dei bilanci: allo specchio come si vede?
«Nell’immagine più giovanile di come a vent’anni vedevo uno della mia età di ora: mi sarei immaginato un aspetto più maturo. Andando alla sostanza: non appagato, né nel privato né dal punto di vista professionale».
La somiglianza con Richard Gere alla fine è stata una benedizione o una persecuzione?
«All’inizio aiuta somigliare a una star americana con vent’anni più di te ma dopo un po’, quando devi fare il tuo percorso, trovare una tua identità, può essere un po’ penalizzante restare associato a quell’etichetta. Ma non l’ho mai vista come un ostacolo».