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lunedì 16 settembre 2024
 
 

Roberto Roascio: "I miei otto mesi nelle mani dei guerriglieri colombiani".

16/01/2015  Ingegnere, 65 anni, racconta il sequestro e la liberazione avvenuti nel 1989, mentre si trovava al lavoro in un cantiere vicino a Medellìn

Sono passati 24 anni dal suo rilascio, dopo otto mesi e mezzo nelle mani dei guerriglieri colombiani. Era il 1989, si trovava vicino a Medellìn per lavorare a un cantiere, quando è stato sequestrato con due colleghi. Oggi, anche grazie al tempo trascorso Roberto Roascio, 65 anni, ingegnere, milanese, è in grado di ricordare con distacco e lucidità, la liberazione e e quell’esperienza estrema.

Che cosa ricorda del rilascio?
«Era mattina, ci hanno detto “si parte”, hanno nascosto vettovaglie in una buca, smontato lo smontabile , e siamo partiti a piedi. Erano le 13, abbiamo camminato fino a buio. Deduco dal fatto che ci è arrivato un pasto caldo che si siano appoggiati a una casa di contadini. Ci hanno dato vestiti da cambiare: una tuta da ginnastica, più o meno. Ci hanno bendati e fatti scendere a dorso di mulo da un dirupo, con le conseguenze che si possono immaginare. Dopo le persone  che ci avevano tenuti prigionieri ci hanno passato a un gruppo, di lestofanti vorrei dire, mezzo mascherati, ci hanno dato da bere dell’aguardiente (bevanda alcolica colombiana, ndr.), ordinandoci di fingerci ubriachi, dicendo che, diversamente, se ci avesse fermato la polizia ci avrebbe uccisi, per fare ricadere la responsabilità su di loro. Immagino fosse un'ipotesi  verosimile. Ci hanno portati fino alla statale non lontana dal cantiere in cui lavoravamo e lasciati sotto una tettoia dell’autobus e ci hanno detto vi verranno a prendere.  E così è stato».

Che cosa passa nella mente di chi vive un’esperienza tanto estrema? 

«È giusto premettere che nessuna esperienza di sequestro è sovrapponibile alle altre: troppo diverse possono essere le condizioni. La mia fortuna è stata cadere in mano di, per così dire, “professionisti”: esperti che non andavano nel panico per un imprevisto».

Può ricordare come avvenne?

«Nel 1989 ero responsabile di Area per l’America Latina, per conto di una società che aveva in costruzione una diga e due centrali idroelettriche. Abitavo in una casa di campagna con una decina di colleghi, a 25 km da Medellín. Fecero irruzione lì. Presero tre di noi: il responsabile del progetto, un meccanico spagnolo e me, che ero lì temporaneamente, forse non “previsto”, ma ero il più alto in grado e dunque un valore di scambio».

Che cosa si pensa in quei momenti?
«La paura è la prima reazione, ma si capisce presto che non aiuta a governare le reazioni. Aiuta invece il fatto di essere in più di uno. Abbiamo temuto per la vita soprattuttoquando, poco dopo il sequestro, ci portarono in un casolare. Invece volevano soltanto farci cambiare le scarpe. La destinazione definitiva – ci hanno spostato solo una volta – era un campo con delle tende, in alta montagna, clima umido ma non caldo, con minor rischio di intossicazioni alimentari». 

Come si sopravvive alla “quotidianità”?
«Ciascuno ha le proprie reazioni: io ero quello che ogni tanto dava di matto, ma in questo modo mi sfogavo. Dopo il rilascio ho ripreso presto a dormire, a differenza del mio collega in apparenza più calmo e fatalista. Non possiamo dire di essere stati fisicamente maltrattati. Ci spiegarono subito che non ce l’avevano con noi né con il nostro lavoro. Ci diedero carte da gioco, scacchi e una radio con cui abbiamo saputo che il meccanico spagnolo, rilasciato per primo, era arrivato a casa. Cercavo di tenermi occupato: davo lezioni di italiano allo spagnolo, ripulivo la tenda: nella convivenza forzata in spazi stretti si impara a inventarsi modi per isolarsi. Molto di quel tempo l’ho passato scrivendo». 

Un diario di giorni vuoti?

«No, 7-800 esercizi di analisi matematica da uno dei due libri che mi avevano portato e, su un quaderno di scuola con una penna rossa, lettere ai miei familiari: ero consapevole del fatto che non le avrebbero mai lette, ma servivano a me per condividere le loro prevedibili preoccupazioni. Noi sapevamo di essere vivi e di star bene, ma non eravamo certi che lo sapessero le nostre famiglie. E, in tanto tempo, irrazionalmente, accade di temere di venire dimenticati»

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