«Adesso i postulatori devono correre», aveva detto papa Francesco per spronare ad andare avanti con fermezza nella causa di beatificazione di monsignor Romero. E, a meno di due anni dalla sua elezione, arriva il 3 febbraio la firma sul decreto che consacra ufficialmente il vescovo salvadoregno ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa.
«In realtà già il 20 dicembre del 2012 papa Benedetto aveva sbloccato la causa, ma non c’è dubbio che papa Bergoglio ci ha messo fretta», sottolinea il postulatore monsignor Vincenzo Paglia. «Certo, l’iter della causa era molto delicato per il contesto nel quale è avvenuta l’uccisione e ha richiesto un serio approfondimento. Ma per tutti Romero era già sugli altari. Per il popolo latinoamericano, ma anche per moltissimi fedeli. E non è un caso che la Chiesa italiana abbia deciso di celebrare la giornata dei martiri contemporanei proprio il 24 marzo, data dell’uccisione di Romero. Romero è il primo martire del tempo contemporaneo. È il primo che, in certo modo, inaugura una dimensione martiriale in un contesto culturalmente cattolico come era il piccolo paese del Salvador. Vorrei dire che il sensus fidei che taluni hanno anche cercato di travisare e altri hanno non compreso, finalmente ha avuto il suo pieno sigillo ».
Perché la causa è andata così a rilento?
«Non c’è dubbio che l’iter della causa era molto delicato e ha richiesto lunghi studi e anni di riflessione, decantazione e ricerca. Il punto è che gli uccisori erano cattolici. È stato ucciso in un contesto particolarmente complesso come quello dell’America latina che stava vivendo una profondissima trasformazione per cui è stato necessario uno studio attento di tutte le fonti e di tutta la situazione per allontanare ogni dubbio di venature politiche visto che gli uccisori erano cristiani anch’essi. La causa è stata impostata sul martirio in odium fidei e allora la domanda era se possono dei cristiani uccidere un altro cristiano in odium fidei. Fino a che punto prevaleva la dimensione politica su quella della fede? Non pochi, anche uomini della Chiesa, si sono opposti. L’acceso dibattito all’interno della Chiesa latinoamericana rendeva particolarmente difficile l’esame del martirio per odium fidei. È stata indispensabile una lunga e accurata indagine documentaria perché emergesse che l’uccisione di Romero non era per motivi semplicemente politici, ma era in odium fidei come è stato dimostrato».
Ha pesato anche quello che dice Rosa Chavez, il vescovo ausiliare, che cioè a lungo i mandanti dell’assassinio sono stati al governo del Paese?
«Non credo che sia stato tanto questo. Il problema è che per un verso una difficoltà è stata rappresentata dal fatto che una sinistra politica ha cercato di impadronirsi della figura di Romero creando in altri molte perplessità. Una teologica della liberazione segnata robustamente dal marxismo ha richiesto uno studio della causa molto più meticoloso rispetto a casi più lineari. È difficile sostenere che dei cristiani uccidono un altro cristiano in odium fidei».
Cosa ha sbloccato la causa?
«Le ricerche documentarie dell’enorme archivio dell’arcivescovo Romero, lo studio della situazione salvadoregna e centroamericana hanno fatto emergere la chiarezza dell’uccisione di Romero in odium fidei. È apparso sempre più evidente il clima persecutorio contro non il solo Romero, ma contro una Chiesa che cercava di vivere la nuova prospettiva pastorale aperta dal Concilio Vaticano II».
Dava fastidio una Chiesa vicina ai poveri?
«Certamente l’opzione preferenziale per i poveri, una volta che scendeva nelle fibre dei credenti, sconvolgeva l’ordine prestabilito di una oppressione dei più poveri. E quindi una Chiesa evangelica che sceglieva i poveri doveva essere azzittita. La ragione profonda di questa scelta non nasceva da una analisi di stampo storico-dialettico, ma nasceva dalla decisione evangelica di difendere i più poveri perché segno di Cristo. Quindi non era, come taluni continuavano a sostenere anche all’interno della Chiesa, una scelta politica, ma una scelta eminentemente religiosa. È questo il nodo che fa di Romero il primo dei nuovi martiri contemporanei. Ma non il solo. Perché Romero si è trovato, nel Salvador, in compagnia di tanti altri preti, catechisti, religiosi uccisi perché, spinti dal Vangelo, sceglievano di stare accanto ai più deboli». Si dice che Romero è stato convertito dai poveri. È così?
«Questa è una forzatura. Non è una conversione da essere uomo di destra a uomo di sinistra. Lui stesso dice: ”La mia unica conversione è a Cristo ed è lungo tutta la mia vita”. In realtà si può parlare di conversione pastorale. Romero arriva in diocesi e subito uccidono Rutilio Grande, che è il suo amico. Poi uccidono altri cinque sacerdoti. Dopo due anni dal suo ingresso in diocesi Romero conta 30 morti tra catechisti e preti. Di fronte a questo reagisce da vescovo e chiede fortemente giustizia. Non è una conversione come tradizionalmente si dice: Romero i poveri li amava già prima. In realtà accade che, di fronte a una oppressione evidente, Romero capisce e agisce. È molto interessante quello che scrive a padre Sorge che era andato a Puebla alla Conferenza del Celam: “Quando assassinarono il mio braccio destro, il padre Rutilio Grande, anche i campesinos rimasero orfani del loro padre e del loro più strenuo difensore. Fu durante la veglia di preghiera davanti alle spoglie dell’eroico padre gesuita immolatosi per i poveri che io capii che ora toccava a me prenderne il posto ben sapendo che così anch’io mi sarei giocato la vita”. E Romero dice anche che in quella notte ebbe la grazia della “Fortaleza”. In quella notte Romero scelse di essere il defensor pauperum».
Ma verso Romero c’era un clima ostile da parte della Chiesa?
«Questo non si può negare. Il clima a Roma era molto teso contro di lui e il primo che lo ruppe in maniera plateale fu Giovanni Paolo II. Fu lui che volle inserirlo nella celebrazione dei nuovi martiri dove non era nominato. Romero diventa il testimone della Chiesa del Vaticano II che sceglie di cambiare il mondo partendo dai poveri. Si spiega perché papa Francesco insiste nel farci andare in fretta. E, per spinta di papa Francesco, è iniziata anche la causa di beatificazione di Rutilio Grande. A differenza di altri che sono stati pure assassinati, loro due scelsero la testimonianza diretta di incontro con i poveri non una ideologia in favore di. In questo senso Romero resta un martire della Chiesa che sceglie i poveri come motore di una nuova evangelizzazione».