La notizia è ufficiale: Rondine è candidata al Premio Nobel per la pace. Ci lavorava da mesi la vicepresidente della Camera Marina Sereni, che oggi lo ha annunciato al convegno a Montecitorio per i 18 anni dell’associazione che cura le ferite del mondo. Poi ha preso la parola l’azero Aga, che per commentare la notizia ha raccontato la sua storia: dopo aver studiato nello studentato internazionale vicino ad Arezzo, l’anno scorso è tornato in Azerbaigian dove lavora nel settore della comunicazione promuovendo una cultura di pace verso gli armeni, cioè i vicini con cui il suo Paese ha combattuto la guerra per il Nagorno Karabakh. Questo si impara a Rondine: la costruzione del nemico è un inganno, anche se decine di milioni di giovani vivono intrappolati da questa chiave di lettura.
Ne parliamo con Franco Vaccari, presidente e fondatore dell’associazione.
Il nome dell’associazione nasce dal borgo in cui avete uno studentato internazionale. Cosa fate?
«Rondine è il borgo a dieci chilometri da Arezzo, a cui noi abbiamo aggiunto “Cittadella della Pace”. Eppure quel nome non scelto ma trovato rappresenta bene il nostro sogno, quasi al confine con l’utopia: trasformare i nemici in amici, asfaltare il concetto di nemico. La cosa più importante che facciamo è vivere insieme. Tradotto, ospitiamo 30 ragazzi provenienti da zone di conflitto che condividono la stessa casa, gomito a gomito, imparando il rispetto dell’altro e scoprendo la “persona” al di là del “nemico”. Studiano nelle università italiane e partecipano a corsi sulla promozione della pace e il dialogo interreligioso; dopo due anni tornano a casa mettendo in pratica quello che hanno vissuto. Vogliamo infatti formare i leader di domani: dopo 18 anni di storia e 160 giovani passati dallo studentato, ci sembra di aver sfornato pane profumato. Sono cresciuti con noi l’attuale viceministro degli Esteri dell’Abkhazia, che partecipa al tavolo di Ginevra (con Usa, Ue e Russia) per porre fine al conflitto del suo paese con la Georgia. Sono Rondini d’oro, cioè nostri ex ospiti, il viceministro delle Finanze dell’Ossezia, giornalisti serbi, manager ceceni e russi che gestiscono insieme un’impresa di import-export e un gruppo di professori universitari che in Sierra Leone ha fondato il primo Istituto per i diritti umani».
Oggi alla Camera presentate i 18 nuovi ragazzi del prossimo anno. Come li avete scelti?
«Li seleziona una nostra commissione che si reca nel paese e svolge colloqui presso le ambasciate. Non solo iscritti a relazioni internazionali o specialisti della pace, ma anche musicisti, studenti di design e di informatica. Curiamo molto la composizione del gruppo: oltre alle differenze etniche, anche quelle religiose, dalle diverse confessioni cristiane alle altre religioni e ai non credenti. Le aree da cui provengono gli studenti sono il Caucaso (Abkhazia, Daghestan, Ossezia, Armenia), i Balcani (Kosovo, Bosnia, Serbia), il Medio Oriente, Sudan e Sierra Leone. Da quest’anno anche gli Stati Uniti, per applicare il nostro metodo formativo ai conflitti sociali interni ai Paesi».
Avete vissuto in casa alcuni grandi conflitti mondiali. Nella pratica cosa vuol dire?
«Un anno fa iniziava il bombardamento di Gaza, da cui erano appena arrivati i nuovi giovani. I palestinesi si chiedevano: “Cosa ci facciamo qua? Ci svegliamo e ci troviamo di fronte la faccia dei nemici”. E gli israeliani, lì nel borgo toscano, si scoprirono incolpevoli ma già marchiati con il titolo di nemico. Per tutti quei giorni drammatici divennero l’occasione per togliersi l’etichetta infamante di nemici. Vent’anni fa ci fu la strage di Srebrenica: fin dall’inizio ospitiamo bosniaci e serbi, poi kosovari albanesi e serbi. Le loro storie ci hanno obbligato a riflettere su come si costruisce il nemico, sull’inganno della propaganda che tiene in scacco milioni di giovani e su come si può smontare l’idea del nemico. La lezione delle guerre balcaniche è che il conflitto, se non gestito, causa i veleni della distruzione; se gestito, le energie per il rinnovamento».
Fate un importante lavoro con le scuole italiane...
«Sì, 4mila studenti italiani hanno visitato Rondine nel 2014, 600 sono venuti con noi in Trentino e Friuli nei luoghi della Grande guerra e altre migliaia hanno ascoltato le nostre testimonianze nelle scuole. Le racconto l’ultimo episodio che ci è successo in una scuola di Lodi, dove sono stato a parlare con due ragazze. Per un problema organizzativo erano entrambe israeliane; dopo la prima testimonianza, gli studenti erano piuttosto contrariati, ma alla fine sono scoppiati in un applauso fragoroso. Ho detto: “Voi eravate perplessi perché vi aspettavate una voce araba, ma poi siete stati soddisfatti perché l’avete sentita da una bocca israeliana. Questo è il modo in cui non procrastinare il conflitto: formare giovani israeliani che portano nel cuore le ragioni dei palestinesi e viceversa”».
Dalla campagna di Arezzo alla candidatura a Oslo per il Nobel. Da dove è nato il vostro percorso?
«Dal sogno di Giorgio La Pira di città e nazioni senza muri e dall’esperienza del monastero di Camaldoli. Poi nel 1986 abbiamo incontrato lo Spirito di Assisi, il raduno interreligioso per la pace voluto da Giovanni Paolo II nella città di San Francesco. A Rondine ci siamo dal 1977, quando il vescovo di Arezzo affidò ad alcune giovani famiglie delle strutture in abbandono. Nacque così la Comunità di Rondine, per promuovere scambi interculturali e azioni di solidarietà: disabili e profughi accolti, il primo esperimento cittadino di obiezione di coscienza. Nel 1995, allo scoppio della Guerra di Grozny, amici russi e ceceni ci chiesero di organizzare delle trattative segrete e informali. Due anni dopo, proprio per curare le ferite di quella città, nasceva Rondine Città della Pace e lo studentato internazionale: tre ragazzi ceceni e due russi arrivarono in Toscana. Erano i primi dei successivi 160».