Quale ruolo possono avere le regole, i principi, le competenze, le professionalità, gli asset strategici e le buone pratiche nella costruzione di una democrazia digitale inclusiva, rispettosa dei valori della persona e imperniata su un corretto e maturo rapporto tra uomini e tecnologie?
A questa domanda cruciale prova a rispondere il libro I (social) media che vorrei. Innovazione tecnologica, igiene digitale, tutela dei diritti (Franco Angeli), una raccolta di saggi curata dal professore Ruben Razzante (nella foto in alto) e che vede il contributo di diversi esperti ed esponenti delle istituzioni.
Razzante è giornalista e docente di Diritto europeo dell’informazione, di Diritto dell’informazione e di Regole della comunicazione d’impresa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Insegna anche Diritto dell’informazione al Master in giornalismo dell’Università Lumsa di Roma e ai corsi di formazione promossi dall’Ordine dei giornalisti. È membro dell’Advisory Board Assolombarda per il sociale e ha fondato il portale www.dirittodellinformazione.it, che pubblica quotidianamente contributi di illustri studiosi e addetti ai lavori sui temi della qualità dell’informazione e la tutela dei diritti in Rete.
Il volume sarà presentato il 20 luglio a Roma presso Esperienza Europa – David Sassoli.
Professore, si parla tanto di umanesimo digitale. Come possiamo definirlo e soprattutto gli operatori dell'informazione cosa possono fare per realizzarlo?
«L'umanesimo digitale si riferisce a un approccio che cerca di coniugare i valori umani, come l'empatia, l'etica e la responsabilità, con l'utilizzo delle tecnologie digitali; riconoscendo che, nonostante i progressi tecnologici, è fondamentale preservare la centralità dell'essere umano e promuovere un ambiente digitale che rispetti i diritti, la dignità e il benessere delle persone. La nostra società è sempre più influenzata dalle tecnologie digitali, che hanno rivoluzionato il modo in cui le persone interagiscono tra di loro e con il mondo esterno. Tuttavia, l’uso indiscriminato delle tecnologie digitali può portare a una serie di problemi sociali e culturali, tra cui l’isolamento sociale, la dipendenza da dispositivi e la mancanza di privacy. L’umanesimo digitale cerca di affrontare queste sfide promuovendo l’importanza della cultura umanistica nel contesto digitale, incoraggiando la riflessione critica sulle implicazioni sociali e culturali delle tecnologie digitali, e promuovendo un uso responsabile e consapevole delle stesse. Gli operatori dell'informazione possono contribuire a realizzare l'umanesimo digitale adottando pratiche etiche, promuovendo l'accuratezza e l'educazione digitale, rispettando la privacy e gli altri diritti della personalità e promuovendo la diversità e l'inclusione nei rispettivi ambiti di operatività».
In che cosa i social media sono un pericolo, o una trappola, per il lavoro giornalistico e in che cosa, invece, possono rivelarsi utili?
«Da un lato, possono costituire una trappola in quanto favoriscono la diffusione di notizie non verificate, informazioni distorte o addirittura false. La velocità con cui le informazioni si diffondono sui social media può portare a una diffusione incontrollata di fake news, che possono influenzare l'opinione pubblica e minare la credibilità del giornalismo tradizionale. Dall’altra, possono rivelarsi strumenti utili per i giornalisti. Consentono di accedere a una vasta quantità di informazioni in tempo reale e di raggiungere un pubblico più ampio. I giornalisti possono utilizzare i social media per monitorare gli eventi in tempo reale, ottenere testimonianze dirette da persone coinvolte e identificare storie di interesse pubblico. Inoltre, i social media offrono la possibilità di interagire con il pubblico, ricevere feedback e ampliare la propria rete di contatti nel settore giornalistico. Tuttavia, è fondamentale che i giornalisti siano consapevoli dei pericoli associati ai social media e adottino un approccio critico nella verifica delle informazioni. La verifica delle fonti, la ricerca accurata e la conferma incrociata delle informazioni rimangono principi fondamentali per il giornalismo di qualità, indipendentemente dal canale di distribuzione utilizzato».
Nel suo ultimo libro chiama a raccolta molti esperti del settore. Perché? Si tratta di una sorta di alleanza per riflettere e governare i profondi cambiamenti in atto?
«Mi sono avvalso dell'apporto di altri undici esperti che approfondiscono, ciascuno nel suo ambito di operatività, gli aspetti legati all'evoluzione del digitale nella vita delle persone, delle società, degli Stati. A ciascuno dei coautori è stato chiesto di raccontare esperienze, di svolgere riflessioni attinenti al suo ambito di impegno professionale, aziendale e istituzionale e di formulare auspici e proposte, al fine di poter mettere a disposizione dei lettori una rappresentazione fedele di quanto sta accadendo nel mondo dei media e una proiezione verso quelli che potranno ragionevolmente essere gli scenari futuri. Abbiamo quindi realizzato una sorta di manifesto per il futuro della Rete. Con impegni futuri da attuare. Sono profondamente convinto che solo un coro polifonico rappresentativo di tutte le anime e identità che popolano l’ecosistema mediale possa offrire ai decisori istituzionali un’analisi non superficiale per valutare possibili interventi legislativi e nuove linee guida finalizzate a governare al meglio gli urti dei cambiamenti indotti dalla digitalizzazione. La multidisciplinarità che anima questa pubblicazione richiama l’idea di scrivere tutti insieme le regole, con una visione prospettica che guarda al futuro ella democrazia della Rete in modo costruttivo e inclusivo».
L’intelligenza artificiale soppianterà il lavoro intellettuale a cominciare da quello dei giornalisti?
«È un campo in rapida evoluzione che ha il potenziale per trasformare molti settori, compreso il giornalismo. Tuttavia, è importante valutare l'impatto dell'IA in modo equilibrato e realistico. Infatti, l’intelligenza artificiale può avere un impatto significativo sul lavoro giornalistico, ma è improbabile che soppianti completamente il lavoro intellettuale dei giornalisti. Può essere uno strumento complementare che supporta il lavoro dei giornalisti, ma le competenze umane rimarranno fondamentali per un giornalismo di qualità. Nella selezione delle fonti, nell’affinamento degli strumenti di reperimento di informazioni e di costruzione dei resoconti giornalistici l’intelligenza artificiale può rappresentare una risorsa preziosa per i giornalisti, anzi io ritengo che se ne debba parlare anche nei master in giornalismo e negli altri luoghi di formazione dei nuovi operatori dell’informazione. C’è ovviamente anche il rovescio della medaglia: l’IA può anche diabolicamente mettersi al servizio della produzione di fake news e di disegni di disinformazione ed è per questo che occorre cautela e sano discernimento. Dobbiamo ricordarci che, se l’intelligenza artificiale non rispetterà i diritti fondamentali delle persone, compresi quelli relativi alla dignità, alla privacy, all’onore, all’immagine, alla non discriminazione e alla proprietà intellettuale, essa diventerà il killer del benessere digitale anziché armonizzarsi con la prospettiva della costruzione di un nuovo umanesimo digitale».
Quali sono i punti di contatto tra quest'ultimo e i suoi due libri precedenti: L'informazione che vorrei del 2018 e La Rete che vorrei del 2020?
«Tra i vari volumi c'è sicuramente una continuità. Si potrebbe anzi parlare di una sorta di trilogia. I titoli dei tre volumi seguono un filo conduttore unico ma c'è un'evoluzione nei concetti e negli approcci, oltre che nei contenuti, a seguito dei nuovi sviluppi tecnologici e non solo. L’innovazione tecnologica corre come una lepre e il diritto è in affanno nel governare i processi. C’è dunque bisogno anche di autodisciplina da parte degli utenti e di tanta cultura digitale fin dalle scuole dell’obbligo e in tutti gli ambiti formativi. In particolare i motivi ispiratori di quest’ultimo volume sono stati due. Il primo è il Pnrr, grossa spinta alla digitalizzazione del Paese: il libro fotografa per le imprese progetti raccontati da chi li attuerà e chi ne beneficerà. Il secondo motivo ispiratore è l'urgenza di proteggere la nostra identità digitale, che mettiamo facilmente in pasto a predatori della Rete. Se nel 2018, per la prima volta, mettevo in guardia dalle fake news, queste si sono poi trasformate in una vera e propria emergenza durante la pandemia. Nel 2020, abbiamo cambiato il nostro modo di relazionarci con il mondo, c'è stato un incremento dell'uso della Rete, si è moltiplicata la nostra presenza online e sono aumentati esponenzialmente i pericoli informatici in cui cadere, come furti e truffe digitali, perché nel contempo abbiamo abbassato le nostre difese e la nostra attenzione. Inoltre, ultimi protagonisti dell’ultimo anno sono il metaverso e l'intelligenza artificiale. La sfida del futuro? Riscoprire il valore, anche economico, dei nostri dati personali che oggi con troppa leggerezza cediamo gratis ai colossi del web».
Nel libro lei parla dell'igiene digitale. Cos'è e come possiamo definirla?
«L'igiene digitale è un concetto che si riferisce alla pratica di mantenere una condizione di salute e benessere online. Riguarda quindi l'adozione di pratiche e precauzioni per proteggere la sicurezza, la privacy e il benessere nel contesto digitale. Prendersi cura della propria salute digitale è importante per trarre il massimo beneficio dalle tecnologie digitali, evitando al contempo rischi e problematiche associate all'uso non consapevole o insicuro delle stesse. Ciascuno di noi è chiamato, con i suoi comportamenti digitali, a rendere meno tossico e più vivibile l’ambiente virtuale».
Nel dibattito pubblico si parla molto di "agenda digitale" anche in vista di attingere i fondi del Pnrr. Questo libro come si pone rispetto a priorità, obiettivi, eticità di questi progetti?
«Mi piace definire questo libro come “l'agenda digitale di questa legislatura”, perché nel testo abbiamo offerto a governo, istituzioni, enti, riflessioni, analisi, proposte da attuare durante i prossimi cinque anni anche nell'ambito dei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza sulla transizione digitale. Il fine è migliorare e far crescere la digitalizzazione in Italia. Io credo che il Pnrr rappresenti una delle opportunità più preziose per l’Italia dal secondo dopoguerra e senza un’oculata gestione e messa a terra dei progetti legati a quel Piano il Paese perderebbe un’occasione storica per crescere in maniera equilibrata e sostenuta. Il digitale è la leva dello sviluppo della società. In ogni ambito, pensiamo soltanto a quelli della sanità o dei trasporti, può imprimere un’accelerazione decisiva ai processi di crescita inclusiva e solidale. E nel mondo dell’informazione può consentire di democratizzare ulteriormente i meccanismi di produzione e diffusione delle notizie».