E se fossimo
noi a rubare i bambini ai rom?
Recenti
fatti di cronaca hanno rinverdito lo stereotipo mai scomparso dei
“nomadi ladri di bambini”. La ricerca “Mia madre era rom”, da
poco presentata a Roma, getta invece per la prima volta luce su una
realtà opposta.
«Abbiamo
voluto questo studio per un motivo molto semplice»,
spiega Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio.
«Questo
pregiudizio, molto radicato nella società maggioritaria, non ha
fondamento. Un'indagine del 2008 dell’Università
di Verona, intitolata “La zingara rapitrice”, attesta
che il fenomeno dei “rom che rubano bambini” è totalmente
assente: negli ultimi 30 anni non c'è mai stata una condanna,
nemmeno in primo grado, per fatti del genere. Mentre noi ci siamo
domandati se non sia vero il contrario. E questa ricerca lo dimostra:
esiste un flusso
contrario, grave soprattutto perché istituzionalizzato, e con numeri
preoccupanti: un bimbo rom ha 50 possibilità in più di un non rom
di essere sottratto alla famiglia e dichiarato adottabile».
Secondo
Stasolla, si tratta di numeri ingenti, così gravi da far pensare ai
trasferimenti coatti di minori del secolo scorso, che secondo la
Convenzione per la prevenzione del genocidio (1948) sono atti
ascrivibili a tale crimine. «In tale accezione»,
conclude Stasolla, «siamo
anche noi di fronte a un grave crimine».
Si
legge nella ricerca: «Nel
secolo scorso, in tre diversi continenti e in tre diversi periodi si
è assistito
alla sottrazione massiccia dei figli delle minoranze culturali ad
opera dei servizi di assistenza locali: si tratta dei circa 100.000
minori aborigeni in Australia, degli oltre 580 jenische
in
Svizzera e degli oltre 11.000 amerindiani in Canada,
allontanati
dalle proprie famiglie di origine e inseriti in istituti e famiglie
parte della società maggioritaria. I governi degli Stati in
questione hanno di recente avanzato pubblicamente delle scuse
ufficiali nei confronti dei membri di tali minoranze e talvolta
riconosciuto l’intento assimilazionistico degli allontanamenti,
responsabili e riconducibili a una sorta
di
genocidio culturale. Oltre a queste tre vicende, ci sono 700 storie
di altrettanti minori rom croati, i quali durante la Seconda Guerra
Mondiale sono stati forzatamente tolti ai propri genitori per essere
dati in affidamento a coppie tedesche non in grado di avere figli.
Con le nette e necessarie differenze, oggi, in Italia, i minori rom
sembrerebbero essere protagonisti – spesso passivi – di un
movimento unidirezionale dalle proprie famiglie rom verso altre non
rom, nell’ambito della giustizia minorile».
Così
si legge nello
studio
della ricercatrice Angela Tullio Cataldo
(http://www.21luglio.org/wp-content/uploads/2013/10/Rapporto-Mia-madre-era-rom_Associazione-21-luglio1.pdf),
realizzato in collaborazione con l'Università di Verona, che prende
in esame i dati della regione Lazio, e in particolare di Roma, negli
anni dal 2006 al 2012, scandagliando i documenti dei tribunali dei
minori. Ne emerge un flusso istituzionalizzato di minori rom,
strappati alle proprie famiglie per essere adottati da quelle della
società maggioritaria.
I dati parlano
da soli: dal 2006 al 2012 è stato segnalato al tribunale 1 minore
rom su 17, contro 1 su 1.000 della popolazione non rom; le procedure
di adottabilità aperte hanno riguardato 1 minore rom su 20 (ma 1 su
1000 non rom); le sentenze definitive di adottabilità sono state per
1 minore rom su 33 (ma 1 su 1.250 non rom).
La
ricerca appena presentata si focalizza sulla regione Lazio, ma ne
esiste una precedente secondo cui tra il 1985 e il 2005 sette
tribunali dei minori (sui 29 esistenti in Italia) – ovvero i
Tribunali di Torino, Firenze, Napoli, Bologna, Venezia, Trento e Bari
– hanno dichiarato in stato di adottabilità 258 minori rom, il
2,6% dei minori dichiarati adottabili in quegli anni da quei
tribunali: se si tiene conto che la popolazione rom rappresenta circa
lo 0,2% di quella nazionale, in proporzione, i minori rom dichiarati
adottabili avrebbero dovuto essere non più di 13, un numero 17 volte
inferiore a quello reale.
«Paragonando le due ricerche»,
prosegue il presidente dell'associazione 21 luglio, «si
vede che i numeri provenienti da questi sette tribunali sono circa la
metà rispetto a quelli di Roma, e questo conferma il trend, essendo
la regione Lazio una di quelle che più hanno investito nei campi:
dove la legislazione insiste sulla segregazione abitativa, il
fenomeno delle adozioni di minori è più rilevante. Si potrebbe
esemplificare così: l'istituzione definisce gli spazi marginali e
segregativi dei campi – da lei stessa istituiti – come non idonei
alla crescita dei bambini e per questo motivo li sottrae alle
famiglie».
L'indigenza
e lo stato di abbandono in cui spesso i minori rom si trovano a causa
della precarietà abitativa ed economica in cui vivono, nei campi,
vengono interpretati come incuria e incapacità dei genitori di
prendersi cura dei figli.
Sì,
perché la ricerca ha scandagliato sia l'entità che la qualità del
fenomeno, esaminando anche le motivazioni delle sentenze e
intervistando chi si occupa dell'iter di adottabilità: assistenti
sociali, giudici, pubblici ministeri, procuratori, avvocati,
psicologi, mediatori sociali, responsabili di comunità per minori.
Il quadro che ne esce è critico: «Il pregiudizio che domina tra la
gente c'è anche nella testa di giudici e assistenti sociali»,
sottolinea Stasolla, «come
dimostrano alcune frasi riportate nella ricerca, colme di
colpevolizzazioni generaliste».
«Più
volte», si legge nel
rapporto, «il legame
familiare e la cultura rom vengono descritti dagli intervistati
attraverso l’utilizzo di aggettivi evocativi di un mondo primitivo,
animalesco, selvaggio, riconducibili all’immagine del rom
premoderno, se non primitivo».
«C’è
un problema di conoscenza da parte dei Servizi Sociali che è
oggettiva», sottolinea
ancora il documento. «Un
utilizzo così superficiale del concetto di cultura e del concetto di
“cultura nomade” sconta un ritardo di almeno 25 anni. Non c’è
formazione, non c’è aggiornamento, raramente c’è confronto
effettivo e concreto su questi concetti che sono strumenti di lavoro
per chi è nel sociale».
Così,
di fronte a situazioni di disagio puramente materiale, l’origine
della situazione di rischio per il minore viene imputata alla
“cultura rom”, concepita come univoca e ontologicamente
inadeguata. L’allontanamento del minore rischia così di
sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione
dalle sue responsabilità a causa del pregiudizio che i rom sono un
gruppo “culturalmente” inadatto a crescere i bambini.
A
dimostrazione di ciò, Carlo Stasolla sottolinea che la presidente
del Tribunale dei minori di Roma, intervenuta alla presentazione del
rapporto, ha nettamente negato i dati che ne sono emersi. «Ma i
numeri sono quelli, non si possono contestare».
Un
quadro complesso e difficile.
Esistono strade percorribili per
uscirne? Il presidente dell'associazione 21 luglio ne propone alcune:
«Ci attiveremo per promuovere corsi formativi per assistenti sociali
e per chi se ne occupa a vario titolo, su chi sono i rom e sulle
politiche attuate verso di loro. Esistono altre associazioni che
lavorano in rete, ma noi siamo gli unici con un approccio sui diritti
umani e totalmente indipendenti, perché per statuto non possiamo
accedere a finanziamenti pubblici e godiamo quindi di una grande
libertà d'azione. La via d'uscita definitiva sarebbe una sola: i
campi vanno chiusi! Sono nati negli anni Ottanta, partendo da un
errore, quello di considerare i rom come nomadi (che non è vero), un
abbaglio culturale che fa sì che in Europa l'Italia sia chiamata “il
paese dei campi”. Abbiamo anche lanciato una petizione che può
essere firmata sul nostro sito. Ma arrivare alla loro chiusura sarà
difficilissimo, manca la volontà politica da parte di qualunque
schieramento, perché non è una scelta popolare e non conviene
nemmeno dal punto di vista economico, per il grande indotto di
servizi e di denaro che vi gira attorno, un po' come avveniva per gli
ospedali psichiatrici e come avviene tutt'ora per le carceri e i CIE.
In gioco ci sono diritti umani fondamentali violati, e all'estero si
è dimostrato che esistono altre vie d'uscita che funzionano».