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sabato 26 aprile 2025
 
 

Rubiamo i bambini ai rom

24/11/2013  C'è un luogo comune, mai scomparso, secondo cui i “nomadi sono ladri di bambini”. Una ricerca, intitolata “Mia madre era rom”, dati alla mano la smentisce: in 30 anni non un solo caso. Viceversa, siamo noi – la cosiddetta società maggioritaria – che sottrae moltissimi minori alle famiglie rom.

E se fossimo noi a rubare i bambini ai rom? Recenti fatti di cronaca hanno rinverdito lo stereotipo mai scomparso dei “nomadi ladri di bambini”. La ricerca “Mia madre era rom”, da poco presentata a Roma, getta invece per la prima volta luce su una realtà opposta.

«Abbiamo voluto questo studio per un motivo molto semplice», spiega Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio. «Questo pregiudizio, molto radicato nella società maggioritaria, non ha fondamento. Un'indagine del 2008 dell’Università di Verona, intitolata “La zingara rapitrice”, attesta che il fenomeno dei “rom che rubano bambini” è totalmente assente: negli ultimi 30 anni non c'è mai stata una condanna, nemmeno in primo grado, per fatti del genere. Mentre noi ci siamo domandati se non sia vero il contrario. E questa ricerca lo dimostra: esiste un flusso contrario, grave soprattutto perché istituzionalizzato, e con numeri preoccupanti: un bimbo rom ha 50 possibilità in più di un non rom di essere sottratto alla famiglia e dichiarato adottabile».

Secondo Stasolla, si tratta di numeri ingenti, così gravi da far pensare ai trasferimenti coatti di minori del secolo scorso, che secondo la Convenzione per la prevenzione del genocidio (1948) sono atti ascrivibili a tale crimine. «In tale accezione», conclude Stasolla, «siamo anche noi di fronte a un grave crimine».

Si legge nella ricerca: «Nel secolo scorso, in tre diversi continenti e in tre diversi periodi si è assistito alla sottrazione massiccia dei figli delle minoranze culturali ad opera dei servizi di assistenza locali: si tratta dei circa 100.000 minori aborigeni in Australia, degli oltre 580 jenische in Svizzera e degli oltre 11.000 amerindiani in Canada, allontanati dalle proprie famiglie di origine e inseriti in istituti e famiglie parte della società maggioritaria. I governi degli Stati in questione hanno di recente avanzato pubblicamente delle scuse ufficiali nei confronti dei membri di tali minoranze e talvolta riconosciuto l’intento assimilazionistico degli allontanamenti, responsabili e riconducibili a una sorta di genocidio culturale. Oltre a queste tre vicende, ci sono 700 storie di altrettanti minori rom croati, i quali durante la Seconda Guerra Mondiale sono stati forzatamente tolti ai propri genitori per essere dati in affidamento a coppie tedesche non in grado di avere figli. Con le nette e necessarie differenze, oggi, in Italia, i minori rom sembrerebbero essere protagonisti – spesso passivi – di un movimento unidirezionale dalle proprie famiglie rom verso altre non rom, nell’ambito della giustizia minorile».

Così si legge nello studio della ricercatrice Angela Tullio Cataldo (http://www.21luglio.org/wp-content/uploads/2013/10/Rapporto-Mia-madre-era-rom_Associazione-21-luglio1.pdf), realizzato in collaborazione con l'Università di Verona, che prende in esame i dati della regione Lazio, e in particolare di Roma, negli anni dal 2006 al 2012, scandagliando i documenti dei tribunali dei minori. Ne emerge un flusso istituzionalizzato di minori rom, strappati alle proprie famiglie per essere adottati da quelle della società maggioritaria.

I dati parlano da soli: dal 2006 al 2012 è stato segnalato al tribunale 1 minore rom su 17, contro 1 su 1.000 della popolazione non rom; le procedure di adottabilità aperte hanno riguardato 1 minore rom su 20 (ma 1 su 1000 non rom); le sentenze definitive di adottabilità sono state per 1 minore rom su 33 (ma 1 su 1.250 non rom).

La ricerca appena presentata si focalizza sulla regione Lazio, ma ne esiste una precedente secondo cui tra il 1985 e il 2005 sette tribunali dei minori (sui 29 esistenti in Italia) – ovvero i Tribunali di Torino, Firenze, Napoli, Bologna, Venezia, Trento e Bari – hanno dichiarato in stato di adottabilità 258 minori rom, il 2,6% dei minori dichiarati adottabili in quegli anni da quei tribunali: se si tiene conto che la popolazione rom rappresenta circa lo 0,2% di quella nazionale, in proporzione, i minori rom dichiarati adottabili avrebbero dovuto essere non più di 13, un numero 17 volte inferiore a quello reale.

«Paragonando le due ricerche», prosegue il presidente dell'associazione 21 luglio, «si vede che i numeri provenienti da questi sette tribunali sono circa la metà rispetto a quelli di Roma, e questo conferma il trend, essendo la regione Lazio una di quelle che più hanno investito nei campi: dove la legislazione insiste sulla segregazione abitativa, il fenomeno delle adozioni di minori è più rilevante. Si potrebbe esemplificare così: l'istituzione definisce gli spazi marginali e segregativi dei campi – da lei stessa istituiti – come non idonei alla crescita dei bambini e per questo motivo li sottrae alle famiglie».

L'indigenza e lo stato di abbandono in cui spesso i minori rom si trovano a causa della precarietà abitativa ed economica in cui vivono, nei campi, vengono interpretati come incuria e incapacità dei genitori di prendersi cura dei figli. Sì, perché la ricerca ha scandagliato sia l'entità che la qualità del fenomeno, esaminando anche le motivazioni delle sentenze e intervistando chi si occupa dell'iter di adottabilità: assistenti sociali, giudici, pubblici ministeri, procuratori, avvocati, psicologi, mediatori sociali, responsabili di comunità per minori.

Il quadro che ne esce è critico: «Il pregiudizio che domina tra la gente c'è anche nella testa di giudici e assistenti sociali», sottolinea Stasolla, «come dimostrano alcune frasi riportate nella ricerca, colme di colpevolizzazioni generaliste». «Più volte», si legge nel rapporto, «il legame familiare e la cultura rom vengono descritti dagli intervistati attraverso l’utilizzo di aggettivi evocativi di un mondo primitivo, animalesco, selvaggio, riconducibili all’immagine del rom premoderno, se non primitivo». «C’è un problema di conoscenza da parte dei Servizi Sociali che è oggettiva», sottolinea ancora il documento. «Un utilizzo così superficiale del concetto di cultura e del concetto di “cultura nomade” sconta un ritardo di almeno 25 anni. Non c’è formazione, non c’è aggiornamento, raramente c’è confronto effettivo e concreto su questi concetti che sono strumenti di lavoro per chi è nel sociale».

Così, di fronte a situazioni di disagio puramente materiale, l’origine della situazione di rischio per il minore viene imputata alla “cultura rom”, concepita come univoca e ontologicamente inadeguata. L’allontanamento del minore rischia così di sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione dalle sue responsabilità a causa del pregiudizio che i rom sono un gruppo “culturalmente” inadatto a crescere i bambini.

A dimostrazione di ciò, Carlo Stasolla sottolinea che la presidente del Tribunale dei minori di Roma, intervenuta alla presentazione del rapporto, ha nettamente negato i dati che ne sono emersi. «Ma i numeri sono quelli, non si possono contestare». Un quadro complesso e difficile.

Esistono strade percorribili per uscirne? Il presidente dell'associazione 21 luglio ne propone alcune: «Ci attiveremo per promuovere corsi formativi per assistenti sociali e per chi se ne occupa a vario titolo, su chi sono i rom e sulle politiche attuate verso di loro. Esistono altre associazioni che lavorano in rete, ma noi siamo gli unici con un approccio sui diritti umani e totalmente indipendenti, perché per statuto non possiamo accedere a finanziamenti pubblici e godiamo quindi di una grande libertà d'azione. La via d'uscita definitiva sarebbe una sola: i campi vanno chiusi! Sono nati negli anni Ottanta, partendo da un errore, quello di considerare i rom come nomadi (che non è vero), un abbaglio culturale che fa sì che in Europa l'Italia sia chiamata “il paese dei campi”. Abbiamo anche lanciato una petizione che può essere firmata sul nostro sito. Ma arrivare alla loro chiusura sarà difficilissimo, manca la volontà politica da parte di qualunque schieramento, perché non è una scelta popolare e non conviene nemmeno dal punto di vista economico, per il grande indotto di servizi e di denaro che vi gira attorno, un po' come avveniva per gli ospedali psichiatrici e come avviene tutt'ora per le carceri e i CIE. In gioco ci sono diritti umani fondamentali violati, e all'estero si è dimostrato che esistono altre vie d'uscita che funzionano».

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