Bastarono 100 giorni, dal 6 aprile a metà luglio. Era il 1994. Il genocidio del Rwanda fu uno degli episodi più tragici del ventesimo secolo. Alla fine i morti furono almeno 800 mila. Tutsi, soprattutto. Ma anche Hutu. Odio. Sangue. Impotenza della comunità internazionale, Onu in primo luogo.
A quasi vent'anni di distanza si tenta la via del riscatto sociale, economico, politico. Si è appena concluso il viaggio
ufficiale del relatore speciale delle Nazioni Unite in Rwanda, Raquel Rolnik (foto) e
le sue prime dichiarazioni, da un lato aprono uno spiraglio ottimista sul futuro
del Paese, dall'altro mette in guardia e invita tutti a prestare la massima
attenzione sui profondi processi di cambiamento in atto nel Paese per
verificare che gli interessi, specialmente quelli delle fasce più deboli, non
siano calpestati in nome del progresso. La prima notizia positiva è che sia
stato proprio il governo rwandese a formulare l'invito, convinto che la strada
intrapresa, dopo decenni di conflitti, sia quella giusta, nell'interesse di
tutti. Si è trattato di un'occasione importante per fare il punto, in
particolare, sugli sviluppi delle politiche abitatite e agrarie.
La Rolnik si è
detta soddisfatta dell'approccio "concettuale" del Governo di fronte
alle emergenze del Paese, riconoscendo
una straordinaria capacità di arrivare, nella comunicazione, anche nelle
zone rurali più "dimenticate". Per alloggio
"adeguato", ha proseguito il relatore, le istituzioni locali
intendono non tanto e non solo una casa dignitosa ma anche un contesto adeguato
che consenta alle persone di vivere in pace e in sicurezza, godendo della
possibilità di accedere ai servizi di base e alle infrastrutture oltre,
ovviamente, alle rinnovate opportunità economiche che si prefigurano nel
presente e nel futuro prossimo del Paese. La crescita economica del Rwanda è
un'altra delle buone notizie, pur in un clima internazionale piuttosto tetro,
di cui farsi forza per ricostruire un tessuto sociale che troppo alungo è stato
dilaniato da guerre civili e messo in ginocchio da politiche totalmente sorde a
uno sviluppo sostenibile e "democratico" delle ricchezze di questa
terra. In dieci anni il Rwanda ha visto calare la percentuale di persone in
stato di povertà estrema dal 40% al 24% secondo l'ultimo rilevamento facente
riferimento al 2010/2011.
Tutto questo ha innescato una catena di iniziative virtuose che hanno dato immediati frutti e quindi nuovi stimoli a partire dall'aumento della frequenza scolastica concretizzatasi in un raddoppio dei bambini iscirtti nelle scuole secondarie dal 2005 a oggi. Altro traguardo raggiunto è l'accesso all'acqua potabile: nel 2010/2011, secondo i dati forniti, è un diritto diventato realtà per il 74% della popolazione rwandese. La buona impressione lasciata dal Governo del Paese in Raquel Rolnik è solo parizalmente oscurata dai dubbi sullo sviluppo realmente sostenibile dell'economia locale, nel rispetto totale e inderogabile dei diritti umani, ambito in cui, evidentemente, c'è ancora tanto lavoro da fare. In questo senso si aspettano dei segnali positivi dall'impegno di "villagizzazione", o umudugudu" (foto), in corso: tradizionalmnte le famiglie ruandesi sono abituate a vivere sparse sul territorio e non in villaggi raggruppati, seppur di piccole dimensioni. Ma per garantire migliori servizi, per mettere in pratica una politica abitativa credibile ed efficace, e per procedere con una nuova e più democratica ripartizione delle terre con annessi programmi di intensificazione delle colture, la strategia scelta che ora deve essere messa in pratica prevede appunto che vengano costruite abitazioni più vicine nelle zone rurali del Paese. I primi risultato sono stati toccati con mano dal relatore speciale delle Nazioni Unite, tanto che con l'umudugudu si è passati dal 18% del 2005 al 39% del 2011.
In particolare la Rolnik si è
soffermata sulla descrizione del modello di villagizzazione di Nyagatovu, nella
provincia orientale: le testimonianze raccolte dalle persone che ci vivono, in
particolare orfani e vedove in condizioni di estrema povertà, hanno lasciato
intuire che questo modello, che sì comporta uno spostamento non sempre facile
di gruppi isolati di famiglie per la creazione di nuovi insediamenti, ha
margini di miglioramento sia nell'approccio sia nella realizzazione. Il
problema più grave è che al momento mancano i fondi necessari per estendere in maniera
sistematica il progetto umudugudu nel resto del Rwanda: si sono lasciate famiglie intere senza casa, dopo aver distrutto le loro promettendone di nuove. Altre criticità sono
state segnalate nelle modalità in cui questi spostamenti sono stati realizzati:
la coercizione e l'uso immotivato della forza sono retaggi ancora presenti che
violano i diritti umani.
Tra i cambiamenti più radicali e significativi dell'operazione di
ammodernamento delle soluzioni abitative c'è sicuramente quella adottata nel
2010 che prevede la sostituzione dei tetti di paglia con altri materiali più
resistenti e che garantiscono standard di vita migliori rispetto alle
condizioni climatiche: alcuni ritardi però hanno lasciato parecchie famiglie
senza alloggio. Proprio da queste considerazioni, la Rolnik ha preso le mosse
per invitare il Governo locale ma anche la comunità internazionale a vigilare
con attenzione sui processi evolutivi in atto nel Paese per evitare che gli
sgomberi forzati diventino la norma e non l'eccezione, comunque da condannare.
Il reinsediamento deve essere trattato in modo partecipativo e sinceramente
consensuale per consolidare un clima di pace e riconciliazione di cui il Rwanda
ha indubbiamente bisogno. E per farlo, l'offerta di nuove soluzioni abitative
deve garantire uno standard superiore o quanto meno pari a quello di cui
godevano le famiglie prima dello spostamento. In questo senso assume
straordinaria importanza il fatto che gli scambi e gli espropri di terre e
alloggi avvengano contransazioni all'insegna dell'equità e della trasparenza.
Il momento di
svolta è stato il 2005 quando una nuova legge ha tentato di risolvere equamente
dispute per la terra che si trascinavano da anni in linea con un'economia di
mercato più aperta e moderna. I punti chiave della disciplina hanno reso
obbligatoria la registrazione presso il catasto dei terreni di proprietà e la
loro titolazione titolazione così da iniziare un processo di ricomposizione
fondiaria. Obiettivo numero uno: tutelare la sicurezza del possesso,
riconoscendo parità di diritti in tema di proprietà a uomini e donne. per
incentivare in qualche modo i piccoli agricoltori, è stato anche deciso che
coloro che possiedono meno di due ettari di terreno siano esantati dalla tassa
specifica. Di sicuro, la riforma non è bastata: le cause e le controversie per
la terra costituiscono la stragrande maggioranza dei casi di cui sono investiti
i tribunali. Questo anche a causa di qualche difetto di chiarezza della legge
stessa che molti cittadini oggetto di sondaggi hanno dichiarato di non capire.
I tempi per presentare gli incartamenti sono il crucio principale della
giustizia ruandese: troppo stretti rispetto alla complessità del fenomeno. Un
altro tentativo della riforma ha previsto una procedura che "metta insieme
i piccoli appezzamenti di terreno al fine di gestirli e utilizzarli in modo più
uniforme, efficiente e dunque produttivo": tutto questo, ovviamente,
lasciando ai proprietari la disponibilità di tutti i diritti sulle rispettive
terre. Il rischio più grande nell'intraprendere questo genere di politica è
però che questo "consolidamento" dei terreni attiri irresistibilmente
le grandi aziende agroalimentari, con la realistica conseguenza della
costituzione di latifondi nelle zone rurali e un incremento della migrazione
dei piccoli contadini verso le città più grandi. In Rwanda, non va dimenticato,
le dimensioni delle proprietà terriere sono mediamente inferiori a un ettaro:
un sistema di questo genere potrbbe sottoporli a pressioni del mercato
eccessive. La strada migliore da seguire, a detta della Rolnik, sarebbe
piuttosto quella di far sì che l'agricoltura sia per i contadini innazitutto
una forma di sussistenza familiare evitando di renderli vittime della
monocoltura. Anche in questo caso, infatti, la ricomposizione fondiaria deve essere
una possibilità e non un obbligo o, peggio, una coercizione.
In conclusione,
quello che ne esce, è il ritratto di un Paese che sicuramente ha fatto degli
sforzi ma deve farni ben di più per uscire da prese di posizione e proposte
socio-economiche equivoche o facilmente equivocabili: magari coinvolgendo le
organizzazioni impegnate in prima fila nelle battaglie per il diritto
all'alloggio e alla terra in un'ottica di responsabilità e sostenibilità.
Organizzazioni che, va detto, secondo la Rolnik godono però di una libertà
sufficiente e sicura di prendere le proprie posizioni contro le decisioni del
Governo.