«Nella memoria ho stampata una data: 29 aprile. Le due di notte, intorno a Palazzo Italia. Veniva giù un’acqua… Avevo i pantaloni fradici fino alle ginocchia. Ci guardavamo intorno, c’era ancora parecchia roba indietro e mi son detto: mah, ce la faremo?». Giuseppe Sala, 57 anni, commissario unico e amministratore delegato di Expo 2015, ha sangue freddo.
Potrebbe, ora che sa di avercela fatta, almeno buttare l’occhio verso il monitor che mostra il Decumano invaso di folla. Invece: «Se non è da libro Cuore, aggiungo: quando qui dentro c’era solo un gran cantiere, e avevamo persino i vigili a regolare il traffico dei camion, tutti ci davano dentro anche perché erano un po’ incavolati. Andavano a casa la sera e la moglie gli chiedeva se Expo era il disastro di cui si sentiva parlare. Sui giornali leggevano che non avremmo aperto in tempo. Insomma, ci credevano in pochi. E invece…».
Un miracolo? «Piuttosto la devozione alla serietà del lavoro», ribatte Sala. «Se proprio vogliamo scomodare i miracoli, allora diciamo che in un cantiere come quello di Expo non si è fatto male nessuno, tranne un cuoco che ha messo le dita nel tritacarne». Risposta milanese e bocconiana, che la copia perfetta della Madonnina del Duomo (tre in tutto, le altre due ce l’hanno il Papa e l’arcivescovo di Milano Scola) registra con pazienza dall’alto della libreria. L’ufficio del “capo dell’Expo” è un cubo di vetro e metallo che guarda sui padiglioni. Diversi scaffali sotto la Madonnina, un libro sull’Inter («L’anno del Triplete ho visto con mia moglie le tre partite decisive, Siena, Roma e Madrid. Alla finale di Champions lei indossava la maglia di Maicon, il suo giocatore preferito»), perché anche i manager hanno passioni.
Da qui, Sala dirige il piccolo esercito (325 dipendenti, 700 lavoratori a tempo determinato e 7 mila volontari) che muove la grande esposizione. Non lo dice, forse non lo ammetterebbe mai, ma sa di aver svoltato. Non solo l’Expo è partita in tempo ma centrerà gli obiettivi. Agosto è stato da record, settembre e ottobre promettono ancor meglio se non pioverà, perché «il meteo fa una differenza del 20%. L’unico momento di crisi l’abbiamo avuto con il caldo di luglio. Del resto, con quelle temperature, avrei baciato in fronte uno per uno quelli che entravano».
E i famosi 20 milioni di biglietti…
«Sono fiducioso. Il dibattito sui numeri è appassionante, ma a me interessano di più i modelli di gestione che possono derivare da Expo. E noi abbiamo mostrato che si può, anche in Italia, lavorare in maniera efficiente secondo un modello poi replicabile. Fatto di sicurezza, accoglienza, gentilezza. I banali segreti di Expo».
Lei ha detto che l’Expo può cambiare Milano e anche l’Italia. Come?
«Sul territorio e su Milano l’Expo ha avuto un innegabile effetto di volano. Non dimentichiamo che qui l’Italia ha investito un miliardo, un altro miliardo l’hanno messo i Paesi espositori e tutte le più grandi aziende italiane hanno in un modo o nell’altro partecipato. Il New York Times, per la prima volta nella storia, ha messo Milano in testa alla classifica dei posti da vedere. Sono passati di qui tanti capi di Stato e di Governo e se ne sono andati colpiti. Netanyahu, il premier di Israele, uscito dall’Expo è andato a vedere l’Ultima Cena di Leonardo. Quanto valgono, per il Paese, cose come queste? Poi ci sono tanti altri dati. A Milano e dintorni l’occupazione degli hotel non è mai stata così alta. I miei ex colleghi di Telecom (Sala è stato direttore generale di Telecom Italia, oltre che direttore generale del Comune di Milano, n.d.r) dicono che il traffico dati è del 160% più alto del 2014. Le carte di credito? Più 30%. Insomma: c’è stato il momento di Barcellona, di Berlino, adesso è il momento di Milano, con la moda, il design, il food, le grandi università».