La direttiva europea sul salario minimo ha diviso il mondo politico e le parti sociali, com’era prevedibile. In realtà nel caso dell’Italia si tratta solo di intraprendere una delle due opzioni: una busta paga agganciata per legge all’inflazione (il grande ritorno della “scala mobile”) oppure continuare la prassi sindacale di una contrattazione collettiva che garantisca ai dipendenti redditi «adeguati e dignitosi», come recita il testo messo a punto da Commissione, Consiglio e Parlamento. Non c’è alcun obbligo a scegliere l’una o l’altra strada. Lo scopo è quello di proteggere i lavoratori più deboli, quelli con gli stipendi più bassi divorati da un’inflazione che sta montando in tutta Europa come un incendio, alimentato dal conflitto in Ucraina, ma non solo. E l’inflazione, si sa, è la “la tassa dei poveri”, divora soprattutto chi ha redditi che hanno a che vedere con la sopravvivenza. Quella dell’Unione europea vuole anche essere la risposta al fenomeno ormai ultra decennale dei cosiddetti “working poor”, coloro che pur avendo un’attività, spesso a tempo pieno, rimangono poveri e galleggiano nel mare dell’indigenza (su questo la rivista giuslavoristica digitale Lavoro, Diritti, Europa”, diretta dall’ex presidente del tribunale del Lavoro di Milano Piero Martello, ha prodotto un’approfondita e per certi versi sconvolgente inchiesta). In aggiunta alla direttiva l’Ue inviterà i Paesi membri a un reddito minimo di inclusione. Invito che però non ci riguarda poiché nel nostro Paese da tempo esiste una misura simile, poi confluita nel reddito di cittadinanza (misura-bandiera dei Cinque Stelle sotto attacco da Italia Viva di Renzi). Lo scopo è sempre quello di lasciare inalterata la capacità di sopravvivenza di chi percepisce retribuzioni minime e deve lottare per arrivare alla fine del mese.
Come sappiamo, in vista di una scadenza elettorale, il mondo politico va in fibrillazione e cerca di marcare le differenze. Se il Centrodestra è sostanzialmente contrario, il Centrosinistra e i Cinque Stelle si dicono favorevoli. Il primo è più vicino alla contrattazione collettiva, il secondo, in quanto paladino del reddito di cittadinanza, accetterebbe di buon grado uno stipendio minimo agganciato all’inflazione “ex lege”. Anche nei sindacati c’è una leggera divergenza di vedute. Più favorevole (o quanto meno non contrario) al salario minimo sembra Maurizio Landini, leader della Cgil, più cauto il segretario della Cisl Luigi Sbarra, che difende i contratti collettivi come principale arma per difendere il potere d’acquisto. Confindustria, poi, non è certo entusiasta, per usare un eufemismo. L’obiezione è che il provvedimento ostacolerebbe le assunzioni e soprattutto si tira fuori dalla mischia affermando che l’associazione degli industriali ha minimi contrattuali più alti rispetto agli standard e ai criteri europei che verrebbero fissati. Inoltre secondo il leader di Viale Astronomia Carlo Bonomi il vero problema in Italia è il cuneo fiscale, la differenza tra costo totale del lavoro e quanto va in tasca al lavoratore al netto di tasse e contributi, il più alto d’Europa. Un dato di cui tener conto, se pensiamo che su 300 miliardi di salari lordi pagati ogni anno nel settore privato 100 se ne vanno in contributi e 80 in Irpef, a carico di imprese e lavoratori.
In realtà, a ben vedere, le due strade – quella del salario minimo e quella della contrattazione collettiva - non sono poi così in contrasto e possono persino coincidere. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ad esempio propone di recepire la direttiva europea utilizzando per legge i parametri minimi dei contratti collettivi di categoria più rappresentativi. Un’interlocuzione tra Governo e parti sociali potrebbe arrivare, attraverso il metodo della concertazione, a un patto sui salari, in grado di difendere le fasce più deboli della popolazione e a evitare tensioni sociali. Senza dimenticare che non bastano accordi o leggi per difendere o creare il lavoro. Serve anche l’aumento della produttività, sgravi fiscali, interventi nell’alternanza scuola-lavoro con regole che favoriscono apprendistato e tirocinio, politiche attive per inserire soprattutto i giovani nel mercato, ammortizzatori sociali adeguati. Per questo le scelte di politica economica dei prossimi mesi, forse giorni, saranno decisive.