Cari amici lettori, nella Chiesa copta c’è una versione dell’icona della fuga in Egitto dove, sullo sfondo, alle spalle di Maria, Giuseppe il bambino e l’asino, appare una ragazza. La tradizione la identifica con Salòme, una parente che si mette in viaggio con la coppia per aiutare la giovane mamma costretta ad affrontare un viaggio rischioso. In questo numero di Credere, che esce alla vigilia di un 8 marzo particolare, questa figura sconosciuta alla tradizione canonica apre diverse suggestioni. La possiamo immaginare come l’amica che si rimbocca le maniche e prende in braccio il bambino quando Maria è stanca, attenta alla esigenze più immediate, quotidiane, della piccola comunità in cammino.
Per secoli le donne sono state occhi e braccia della Chiesa, maggioranza attiva e silenziosa. La svolta del Vaticano II, l’apertura degli studi teologici anche ai laici e alle laiche, la maggiore consapevolezza nelle donne dei propri diritti e del dovere di dare un contribuito anche di intelligenza e di responsabilità alla vita della comunità, in questi decenni ha creato dibattito, frizioni, resistenze. Papa Francesco, come raccontiamo nell’approfondimento di questo numero, ha innestato semi di rinnovamento, con gesti e parole.
Che vanno a depositarsi, però, in un modello ecclesiale tridentino, dove vale l’equazione gerarchia uguale clero. Lo spiega bene la teologa Marinella Perroni: «La Chiesa è clericale e gerarchica, e la gerarchia coincide con il clero. Poiché le donne non possono appartenere al clero è evidente che sono escluse da ogni forma di governo, di autorità». Ripensare la questione dei ministeri, cioè dei servizi e dei ruoli nella Chiesa, è una consapevolezza sempre più diffusa, emersa nei sinodi universali e riproposto da quelli locali, basti pensare alla Germania e all’Austria.
L’icona della fuga in Egitto richiama però immediatamente anche la tragica cronaca di questi giorni. Salòme accompagna una famiglia in fuga dalla violenza e dalla persecuzione. Pensare ai diritti significa allora anche raccogliere il grido di pace di quanti – civili, anziani, famiglie – fuggono dalla guerra in Ucraina. Lo ha fatto papa Francesco, il quale, mentre cadevano le bombe su Kiev, ha voluto porre dei gesti simbolici invitando tutti, credenti e non, a una giornata di preghiera e di digiuno per la pace, il 2 marzo; e recandosi nella sede dell’ambasciata della Federazione russa presso la Santa Sede, il 25 febbraio, dall’ambasciatore Alexander Avdeev, per esprimere la sua preoccupazione.
In questi giorni le immagini che arrivano dai confini dell’Europa, fanno da contrappunto a quelle di altri uomini e donne che lasciano la loro terra a causa di conflitti ad altre latitudini, che continuano a produrre povertà, tratta, schiavitù. Possano le Chiese d’Europa, come hanno pregato anche i vescovi riuniti a Firenze per parlare di ponti nel Mediterraneo, rifuggire le sirene dei nazionalismi, mettere da parte le divisioni tra comunità sorelle, rimboccarsi le maniche per accogliere i profughi e farsi voce davanti ai governi e alla politica di chi scappa da guerra e violenza. A ogni latitudine.