“Di quel giorno di quaranta anni fa ricordo con precisione ogni momento. Da quando uscimmo dalla Casa Bianca per andare all’Hotel Washington Hilton fino al momento in cui mi ritrovai in un letto d’ospedale con una pallottola in corpo”.
Parla senza enfasi Timothy (Tim) McCarthy, l’agente della scorta di Ronald Reagan che nel primo pomeriggio del 30 marzo del 1981 rimase ferito da una delle pallottole sparate da John Hinckley contro il quarantesimo presidente degli Stati Uniti. Due foto ritraggono McCarthy in quel giorno che tenne l’America e il mondo con il fiato sospeso. Una lo mostra in piedi, guardingo, di fronte a Reagan che alza il braccio destro per salutare. Nella seconda foto McCarthy è riverso a terra, con la mano destra chiusa a pugno e la mano sinistra che preme il corpo nel punto della ferita. Alle sue spalle si vede un parapiglia: un poliziotto a terra, il corpo del’addetto stampa Jim Brady e gli uomini della sicurezza con le pistole in mano che si avventano contro l’attentatore.
Hinckley aveva 25 anni e raccontò di aver sparato a Reagan per far colpo sull’attrice Jodie Foster, di cui era follemente innamorato. Hinckley attese Reagan all’uscita del Washington Hilton Hotel, dove il presidente aveva pranzato con alcuni dirigenti sindacali, e sparò sette colpi ferendo quattro persone. Reagan fu ferito al polmone sinistro. Il suo addetto stampa James Brady fu colpito in mezzo alla fronte (resterà menomato e semi invalido fino alla morte, nel 2014), l’ufficiale di polizia Thomas Delahanty rimase ferito al collo, Timothy McCarthy fu ferito nel lato destro del torace. La pallottola viaggiò nel suo corpo toccando il polmone, il diaframma e un lobo del fegato.
Reagan, che aveva cominciato il suo mandato poco più di due mesi prima, si accorse di essere ferito in auto, quando cominciò a respirare a fatica. Fu portato al George Washington University Hospital, dove nonostante la gravità delle sue condizioni non perse conoscenza e neppure la voglia di fare battute. Quando vide la moglie Nancy, accorsa terrorizzata in ospedale, le disse. “Scusa tesoro, mi sono scordato di scansarmi”. Quando fu messo sul tavolo operatorio si guardò attorno e disse ai chirurghi. “Spero che siate tutti repubblicani”.
“Il presidente fu molto vicino alla morte, ma grazie ai bravi medici del George Washington Hospital riuscì a cavarsela”, dice McCarthy in questa intervista esclusiva a Famiglia Cristiana. Oggi McCarthy ha 71 anni e dovrebbe essere in pensione, invece ci parla dal suo ufficio di capo della Polizia di Mokena, un tranquillo paese dell’Illinois con meno di 20 mila abitanti. “Mi sono ritirato dal Secret Service nel 1993 e poi, fino all’agosto dello scorso anno, sono stato il capo della Polizia di Orland Park, non lontano da Chicago. Mi ero in messo in pensione, ma poi mi hanno chiamato a dirigere questa piccola stazione di polizia temporaneamente, solo fino a quando non nomineranno un nuovo capo, poi voglio godermi la pensione”, racconta.
Senza questo incarico temporaneo come sarebbe la sua vita da pensionato?
“Ho tre figli e sette nipoti con i quali vorrei passare il tempo. Ogni tanto gioco a golf, vado a pescare, faccio qualche lavoretto in casa. Io sono originario di Chicago, ma abbiamo anche una casa in Indiana, dove vivono amici e parenti. Poi io e mia moglie ogni tanto andiamo in Florida, ci siamo stati un paio di settimane all’inizio di marzo”.
Torniamo a quel lunedì di marzo del 1981, quando lei fu ferito da una pallottola destinata a colpire il presidente Reagan. Il suo fu un atto di coraggio o fece solo ciò a cui era stato addestrato?
“Senta (ride), mi piacerebbe molto dirle che il mio fu un atto di coraggio, ma in realtà mi comportai seguendo le regole del mio addestramento.Quando entri nel Secret Service e vieni affidato alla squadra di protezione del presidente degli Stati Uniti l’addestramento è molto intenso e comprende la simulazione di tentativi di assassinio, proprio come avvenne quel giorno. Ero addestrato a rispondere ad attacchi con esplosivi, con coltelli e armi da fuoco. Durante queste simulazioni i controlli sono molto severi e se non sei all’altezza vieni escluso dal servizio di protezione del presidente”.
Nel caso di un attentatore solitario, come quel giorno a Washington, che cosa prevedeva il suo addestramento?
“Le regole sono molto precise. Se sei vicino alla persona che spara, devi impossessarti dell’arma e neutralizzare l’attentatore. Se invece lo sparatore è distante, come John Hinckley, devi proteggere il presidente con il tuo corpo e allontanarlo il più rapidamente possibile dal luogo dell’attacco. Così io fui colpito da una pallottola, mentre un mio collega spinse il presidente Reagan, già ferito, all’interno dell’automobile”.
Lei quanto tempo trascorse in ospedale?
“Rimasi ricoverato per 12 giorni, poi passai altri tre mesi a casa in convalescenza”.
Lei fu ricoverato nel George Washington Hospital, lo stesso ospedale di Reagan. Quando ha rivisto il presidente?
“Sono andato a trovarlo in camera il giorno in cui sono stato dimesso, insieme a mia moglie e ai nostri due figli (allora il terzo doveva ancora nascere). Reagan era circondato da monitor e dai tubicini delle flebo. Fu una bella chiacchierata con il presidente e la signora Nancy. Furono molto gentili e ci dissero di andarli a trovare a pranzo o a cena, cosa che in effetti avvenne nei mesi successivi. Fu davvero un bell’incontro, anche se io e mia moglie eravamo un po’ nervosi perché i bambini erano molto attratti da tutti quei macchinari attaccati al corpo del presidente”.
Che ricordo ha di Ronald e Nancy Reagan?
“I ricordi sono tanti, ho lavorato per sei anni accanto al presidente e alla first lady. Erano due persone che amavano il popolo americano e che hanno fatto del loro meglio per il Paese. La signora Nancy con il suo impegno contro la droga, il presidente nel suo ruolo di guida della nazione. Nel privato erano due persone molto premurose e gentili. Lui a volte era molto risoluto, ma faceva parte del ruolo”.
Un mese e mezzo dopo gli spari a Reagan, il 13 maggio, ci fu l’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. Che ricordo ha di quell’evento?
“Ricordo molto bene il giorno dell’attentato al Papa. Mi trovavo in convalescenza a casa, a Chicago, mentre mia moglie era fuori casa per una breve vacanza. Quando arrivò la notizia e vidi le immagini del Papa ferito fu uno shock, mi venne da pensare che tutti, anche un leader religioso, diventano vulnerabili di fronte a persone con disturbi mentali o con progetti eversivi. Nessuno può sentirsi davvero sicuro o fuori pericolo”.
Negli Stati Uniti procurarsi un’arma da fuoco è ancora troppo facile e le sparatorie di massa, come quelle recenti di Atlanta e Boulder, sono frequenti. Lei è favorevole a un controllo severo sull’uso di pistole e fucili?
“Sono favorevole a un ragionevole controllo delle armi. Il problema è che negli Stati Uniti esistono sulla carta tante leggi contro l’illegale possesso di armi e il loro uso, ma queste leggi non vengono applicate in modo costante e rigoroso. Non ha senso stabilire altre limitazioni se non si applicano le leggi già esistenti”.
Quindi lei è contrario a un divieto totale all’uso delle armi da fuoco?
“Guardi, nel nostro paese entrano illegalmente la droga e gli immigrati. Se vietassimo del tutto l’uso delle armi, queste entrerebbero negli Stati Uniti in modo illegale come in parte già avviene. Perciò lo ripeto: applichiamo le buone leggi che già abbiamo”.
John Hinckley, che oggi ha 65 anni, nel 2016 è stato dimesso dal manicomio criminale di St. Elizabeths, dove è rimasto rinchiuso per 34 anni. Secondo lei è giusto che oggi sia un uomo libero?
“A Hinckley fu riconosciuta l’infermità mentale e non ha mai fatto un giorno di carcere. So che dopo il suo rilascio dall’ospedale psichiatrico ora vive in Virginia e gli sono state imposte alcune restrizioni. Mi rendo conto che si tratta di una cosa difficile da comprendere, ma è così e bisogna accettarlo. Rimetterlo in libertà è un rischio, ma la speranza è che Hinckley non commetta altri gesti folli. Spero solo che le persone responsabili del suo rilascio abbiano avuto ragione”.