Gira da giorni una petizione lanciata a ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi da uno studente a nome dei maturandi su change.org, luogo geometrico delle più varie istanze online. Chiede: la cancellazione delle prove scritte all’esame di Stato. Lo fa con un lessico, una sintassi e una punteggiatura periclitanti, definendo “pleonastici” gli scritti (rispetto a che?) e “fruttuoso” l’orale, laddove con ogni evidenza una prova d’esame non ha lo scopo di dare frutti, semmai di certificare quelli colti e non colti in 5 anni di scuola secondaria.
Nel frattempo Benessere Scuola, il progetto digitale che ha coinvolto Fastweb, l’università di Milano Bicocca e un gruppo di scuole secondarie con capofila il Liceo Banfi di Vimercate, ha dato come suo frutto un rapporto in tema di Competenza digitale degli studenti nella secondaria di I e II grado, a cura di Marco Gui, Tiziano Gerosa e Alessandra Vitullo, dal quale si evince che, se gli studenti italiani medi inferiori e superiori hanno un buon grado di alfabetizzazione digitale, sanno “smanettare” con la tecnologia, in qualche modo stanno imparando a gestirne (più le ragazze dei ragazzi) sia l’aspetto comunicativo, segno che i tanti progetti che si fanno sul cyberbullismo qualche frutto (loro sì) lo danno, sia l'aspetto della sicurezza (privacy ecc.), difetta invece e non poco la competenza che il rapporto chiama information & literacy, (informazione e alfabetizzazione). Detto in soldoni: quando si tratta di capire bene quello che si legge e di informarsi in Rete i nostri studenti, anche secondari superiori, cascano come pere non mature ma cotte, faticando non poco a distinguere una bufala da una notizia attendibile. È questa la competenza meno acquisita in generale: in media è l’abilità più carente, trasversalmente al campione.
La cosa che dà da pensare è, dicono i ricercatori, che questa capacità pare strettamente correlata ai risultati scolastici che gli studenti hanno in italiano: «Tra gli studenti che riportano un voto medio di 6 in italiano e che hanno la media del 9», nella capacità di stanare bufale «c’è una differenza di 15 punti percentuali». «Questo risultato sottolinea l’importanza un adeguato livello di padronanza linguistica anche per lo sviluppo della capacità di valutazione delle informazioni in Rete». Mentre per quanto riguarda le abilità matematiche, paiono, in relazione al senso critico in Rete, un fattore ininfluente, non si nota correlazione.
L’altra cosa che si nota è che su questa abilità, molto più che sulle altre capacità digitali analizzate, ha incidenza il livello di istruzione della famiglia: chi cresce in una famiglia con un basso livello di istruzione fatica di più a orientarsi criticamente nell’informazione in Rete, con una differenza di 8,2 punti percentuali in meno. Spesso, lo si sa da altre fonti, sono anche le stesse condizioni sociali che sono alla base della difficoltà in italiano: il rapporto non mette in relazione i due dati, ma li aveva già messi in relazione oltre mezzo secolo fa don Lorenzo Milani, uno dei primi a intuire e a scrivere con grande franchezza che possedere poche parole fosse una forma, non secondaria, di povertà, spesso connessa alla povertà materiale, in grado di azzoppare per la vita e di influire sull’insuccesso dell’ascensore sociale. Per la proprietà transitiva non sembra azzardato ipotizzare, anche se il rapporto non dà questo dato, che chi nasce in una famiglia culturalmente povera maturi più sovente quelle difficoltà in italiano che poi rendono difficile acquisire le abilità che servono a non diventare preda di ogni bufala che passi in Rete e, peggio, di chi potrebbe avere interesse a propalarle. Una questione che ci riguarda come Paese perché ci dice a quali rischi è esposto il futuro della cittadinanza. Fa riflettere il fatto che, a fronte di tutto questo, la risposta che si chiede alla scuola e a chi la governa non sia che si agisca perché la scuola assolva il suo compito e perché la si attrezzi a colmare quella diseguaglianza, come chiede l’articolo 3 della Costituzione, ma che ci si attivi per rimuovere la prova che dovrebbe certificare quella diseguaglianza e farla emergere.
Un po' come pensare di curare un'infezione nascondendo il termometro perché non si veda la febbre.