Non smettono di «andare
all’incontro con i giovani,
soprattutto con quelli più
poveri». A duecento anni
dalla nascita di don Bosco
la Famiglia Salesiana continua
la sua missione in 132
Paesi del mondo, dall’Asia
all’Europa. Sapendo che «il cuore dei
ragazzi è lo stesso ovunque e in ogni
tempo, anche se la realtà dei giovani
europei e quella dei ragazzi di strada
dell’India non hanno nulla in comune.
Eppure con il nostro sistema
pedagogico preventivo, che è quello sperimentato da don Bosco, ci accorgiamo
che sempre, quando un giovane
vede che chi gli sta accanto cerca
il suo bene, apre il suo cuore nello
stesso modo». Don Ángel Fernández
Artime, 54 anni, da quasi uno eletto
rettor maggiore e decimo successore
di don Bosco, ha lo sguardo sereno e i
gesti accoglienti. Preoccupato solo di
una cosa: che la grande Famiglia Salesiana
resti fedele al suo carisma.
Un carisma ancora attuale?
«Papa Francesco dice sempre alla
Chiesa di andare verso le periferie. Ecco,
noi Salesiani siamo nati in periferia.
Pensiamo a cosa è stato Valdocco per la
Torino del 1800 o cosa è stato Mornese
dove sono nate le Figlie di Maria Ausiliatrice.
Le periferie sono nel nostro
Dna. Come rettor maggiore, con il mio
consiglio, la mia preoccupazione è la
fedeltà a questo. E siamo fedeli quando
siamo accanto e insieme ai giovani più
poveri per educare ed evangelizzare.
Tutto il resto viene dopo».
Concretamente cosa significa?
«Voglio fare un esempio. I confratelli
della Sierra Leone mi hanno chiesto
di rimanere nel Paese per l’emergenza
Ebola. Abbiamo trasformato le nostre tre scuole in tre case d’accoglienza
per i giovani rimasti senza
genitori. Questo può farlo una qualsiasi
associazione umanitaria. Ma il di
più è farlo per fede, condividendo con
la popolazione la sua stessa sorte e il
suo stesso cammino».
Il Papa, con il quale lei ha collaborato
direttamente quando era
Ispettore per l’Argentina del Sud, dice
sempre che la Chiesa non è una Ong.
Cosa significa per voi?
«Per noi significa che non dobbiamo
andare verso i poveri semplicemente
per un motivo assistenziale.
Il nostro impegno è di condividere la
vita come credenti, fare un percorso
insieme, rispettando la persona e la
sua coscienza. Poi, certo, esiste sempre
il rischio, in una congregazione
non piccola, di tentare di occuparsi più
delle strutture. Abbiamo certamente
bisogno di un coordinamento, essendo
15 mila Salesiani di don Bosco in 132
nazioni. Ma abbiamo anche sempre
bisogno di dirci che una cosa è la maniera
di organizzarci e un’altra è garantire
la nostra fedeltà alle origini».
Ci sono molte vocazioni?
«Abbiamo 500 novizi in tutto il
mondo. È un dono molto speciale. Il 65
per cento è nell’Est Europa, in Asia, in
Oceania e Africa. In Europa abbiamo
una quarantina di novizi. E poi abbiamo
tantissimi laici che collaborano
con noi. Don Bosco è stato aiutato
molto da laici e laiche. Non avrebbe
potuto fare ciò che ha fatto senza di
loro. E dunque anche la scarsità di vocazioni,
e il Concilio, sono un aiuto a
tornare alle origini. E a ricordare che il
carisma di don Bosco non è proprietà
dei Salesiani, ma è un dono dello Spirito
di Dio alla Chiesa e di don Bosco
al mondo. Noi Salesiani abbiamo il
dovere di assicurare la fedeltà, ma non
abbiamo la proprietà».
Come vi siete preparati al bicentenario
e alla visita del Papa a Torino?
«Ci sono molti eventi. Vorremmo
che questa fosse l’occasione per fare
un cammino di maggiore autenticità.
Abbiamo chiesto che in ciascuna delle
nazioni si faccia un’opera, un servizio
ai ragazzi di strada. E poi ho invitao, per il 31 gennaio, tutti i superiori
e le superiori generali e coordinatori
mondiali dei 30 gruppi giuridici della
nostra Famiglia Salesiana. Per la prima
volta nella storia ci sarà un incontro di
tutti i “capi” vicini a don Bosco. Non un
congresso, ma un momento per condividere,
per pregare insieme, per ritrovarci
insieme nello stesso cortile di
don Bosco. Per andare alle radici e alle
fonti del carisma».