«Dove la natura è un inno perenne alla grandezza del Creatore è facile disporre l’animo a pensieri alti. E soffermarsi in preghiera». GiovanniPaolo II amava le montagne ed espresse così quella sua passione durante la Messa che celebrò nel 1988 sull’Adamello, a 3.035 metri di quota, sull’altare di granito eretto in suo onore sotto Punta Mandrone. Un paradiso, oggi. Inferno ai tempi della Grande guerra: un centinaio di metri più su, infatti, sul Crozzon di Lares, nel 1915 passava il confine tra Austria e Italia. Lì persero la vita combattendo migliaia di alpini. E lì riposano, in un cimitero di neve e ghiaccio. Su quella cima, quattro anni prima, nel luglio del 1984, Giovanni Paolo II aveva già messo piede. Anzi, per essere più precisi, gli scarponi. Ma in modo molto meno ufficiale. Di quella vetta, Karol Wojtyla aveva già sentito parlare dal padre, ufficiale di Francesco Giuseppe. Era, quindi, un luogo perfetto per rispolverare la vecchia passione giovanile, lo sci. «Sciava bene, scendeva da qualsiasi pendio, anche in condizioni di neve difficili. Aveva una tecnica antiquata, come tutti quelli che hanno iniziato con il telemark». Chi descrive lo stile sciistico del Papa è uno che se ne intende: Lino Zani, 53 anni, direttore della Fondazione italiana delle montagne, maestro di sci e guida alpina di Temù (Brescia), paese della Val Camonica che gode dell’imponente vista dell’Adamello. Quella vetta, con le sue discese, le sue rocce e i suoi crepacci, Lino e suo fratello Franco la conoscono come le loro tasche fin da bambini: i loro genitori gestivano il Rifugio Caduti dell’Adamello, sulla Lobbia Alta. «Un giorno d’estate del 1984, vennero a fare la scuola di sci quattro preti polacchi», racconta Lino. «Si divertirono e, a fine giornata, uno di loro prese mia madre da parte e le disse: “Sono il segretario personale del Papa. Sua Santità vuole venire a sciare nei prossimi giorni”. Era don Stanislao Dziwisz. Da quel momento iniziarono i preparativi per accogliere papa Wojtyla». – Vi venne chiesto il riserbo? «Il rifugio venne “blindato” e al maresciallo dei Carabinieri che coordinava i posti di blocco da Ponte di legno e Pinzolo fu comunicato che il ghiacciaio era chiuso per far brillare delle bombe della Grande guerra. Qui accade spesso». – Arrivò anche il presidente Pertini? «Wojtyla lo invitò a partecipare all’escursione, anche se il presidente non sciava. Ci seguì col gatto delle nevi. Fu lui a diramare la notizia. Riteneva importante che i media venissero a conoscenza dell’evento: il Papa che sciava e pregava sull’Adamello per i caduti».
Fu celebrata una Messa?
«La mattina. Poi, il Papa sciò un paio d’ore. Quindi, un pranzo semplice. Mia madre cucinò gli gnocchi verdi delle nostre parti. Li chiamiamo strozzapreti: il nome divertì Pertini, che scherzò con il Santo Padre. Nel pomeriggio, il presidente ripartì e il Papa tornò a sciare fino a sera. Aspettava quel momento da troppo tempo. Voleva sfruttare ogni minuto di quella vacanza speciale. Anche il giorno successivo sciò diverse ore». – In montagna lui pregava? «Guardava sempre su, verso una vecchia croce di legno sul Lares. Mi chiese dei caduti. Gli raccontai tutto ciò che sapevo su quelle cime, le battaglie. Si allontanò e si sedette su una roccia. Rimase lì immobile a pregare per almeno un’ora. C’era un silenzio infinito. Sembrava che niente intorno si muovesse, neanche il vento».
Ha accompagnato il Papa anche quattro anni dopo?
«Sì, con mio fratello. Prese in simpatia la nostra famiglia e io poi frequentai il Santo Padre per ventun anni».
Vi siete incontrati ancora?
«Sì. Molte volte. Andavo sempre a trovarlo quando era in vacanza in Valle d’Aosta e in Cadore. Lo incontravo anche a Roma. Lui sapeva che facevo delle spedizioni e mi chiese di portare delle croci sulle vette che scalavo. Le ultime due le portai ai due estremi della Terra: al Polo Nord (con me c’era anche Mike Bongiorno) e al Polo Sud».
Quando tornava da quelle avventure, il Papa le parlava?
«Voleva sempre il resoconto, tutti i dettagli. Un giorno mi chiese: “Perché voi alpinisti volete salire così in alto?”. Gli risposi: “Per vedere cosa c’è dall’altra parte”. Forse fraintese la mia risposta, comunque mi disse: “Dall’altra parte, si può andare una volta sola”».
A un certo punto ha smesso con le scalate, perché?
«Durante una spedizione per l’Everest, arrivati in Nepal, a Kathmandu, ci dissero che non ci accordavano i permessi per salire. Tentammo, allora, la settima montagna più alta al mondo: il Dhaulagiri. A quota 7 mila sono caduto in un crepaccio di 22 metri. Mi è entrata una lama di ghiaccio nella gola, mi sono rotto le costole e ferito in più punti. Mi ha salvato la croce che avevo nello zaino. Mi ha fatto da scudo. Il 28 gennaio 2005 sono stato da papa Wojtyla in udienza privata. Il 31 di quel mese ho avuto un incidente spaventoso. Ho rischiato di morire e fui ricoverato. Il giorno dopo il Papa è entrato al Policlinico Gemelli. Non l’ho mai più incontrato. Ancora ingessato, sono andato al funerale. Il cardinale Stanislao, in quell’occasione, mi disse: “Anche stavolta le preghiere di Karol ti hanno salvato”».
Suo fratello Franco è morto di leucemia un mese fa. Ha sperato in un “miracolo” anche per lui?
«Abbiamo tentato tutto il possibile. Il mio midollo era compatibile, ma il trapianto non è servito. Vado sempre a pregare sulla tomba di Wojtyla. È un posto che mi dà pace».