Don Giuliano Savina, parroco di San Martino in Greco, quartiere alla periferia nord di Milano.
L’11 novembre è la festa di Martino, il santo celebre per aver diviso il mantello con il povero. «Un gesto che è un programma pastorale», dice don Giuliano Savina, parroco di San Martino in Greco, quartiere alla periferia nord di Milano. La sua comunità è nota per vivere la Chiesa di cui parla Papa Francesco quando dice «la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa; questo non è Dio, è il nostro peccato». Insieme alla Caritas e alla Diocesi, Expo è stata l’occasione per trasformare il teatro parrocchiale, da dieci anni inutilizzato, nel Refettorio Ambrosiano, dove ogni sera mangiano i poveri della città. All’inizio ci furono le contestazioni (con la porta della chiesa imbrattata di verde), poi è finita che è diventato un luogo del bello (arredi d’eccellenza, chef stellati) e dell’accoglienza, valorizzando il quartiere.
Ora, mentre la comunità festeggia il patrono, il nuovo annuncio: sono finiti i lavori della Palazzina Solidale, a breve arriveranno gli ospiti. È una casa all’interno dell’oratorio, anche questa inutilizzata da anni, che alcune associazioni hanno ristrutturato in accordo con la parrocchia: la Comunità di Sant’Egidio gestirà un appartamento per una famiglia rom, la cooperativa Farsi Prossimo avrà qui la sede del catering solidale M’Ama Food per dare lavoro a donne rifugiate, mentre Spazio Aperto Servizi, Cascina Biblioteca e Idea Vita accoglieranno dieci disabili e altre persone in difficoltà in alloggi per housing sociale. Ne parliamo con don Giuliano Savina.
I lavori di costruzione della Palazzina Solidale.
- Come è nata la scelta della Palazzina Solidale?
Quando sono arrivato a San Martino nel 2004, gli immobili urgevano di ristrutturazione: il teatro era inagibile e le stanze della palazzina cadevano a pezzi. Potevamo limitarci a “metterli a posto”, ma ne abbiamo fatto un’occasione per interrogarci dal punto di vista pastorale. Nella riflessione ci hanno aiutato da un alto la storia del quartiere ricca di spiritualità e solidarietà (lo storico rifugio di Fratel Ettore è a due passi, così come un centro per rifugiati), dall’altro le realtà di volontariato che si sono riunite nel Consorzio Oikos. Ricordo un bel confronto in una domenica dedicata al volontariato: piazza Greco era piena di bancarelle delle associazioni, che portavano sogni e proposte concrete.
- Potevate fare un pensionato a pagamento o un’opera redditizia, le casse parrocchiali ne avevano bisogno.
Con la comunità ci siamo chiesti: cosa vuol dire essere parrocchia oggi in un quartiere di periferia a Milano? Ci siamo risposti che gli immobili, anche grandi, che avevamo ricevuto dai nostri padri non dovevano servire a chiuderci in noi stessi, ma ad annunciare la nostra missione. Siamo contenti di vivere una stagione in cui il Papa chiede che i beni della Chiesa siano messi a servizio dei poveri. Non servono per fare soldi, ma per annunciare il Vangelo in modo profetico e con il linguaggio di oggi. La risposta si è trovata quindi non facendo calcoli, ma ponendosi una domanda pastorale.
La palazzina prima di essere ristrutturata.
- Perché è stata un’occasione pastorale?
Perché abbiamo riscoperto noi stessi, lasciandoci interrogare da cosa vuol dire essere comunità in un quartiere cambiato rispetto a decenni fa. Prima in parrocchia arrivavano tutti, oggi dobbiamo spalancare le porte: che bella l’immagine del Giubileo della Misericordia che sarà aperto da tante porte, non solo da una. Nel nostro quartiere cerchiamo di vivere una Chiesa che non ha paura di farsi interrogare dalla storia, come ha fatto Gesù ascoltando l’ansia del cieco e del lebbroso. In questo ci riconosciamo nell’icona di San Martino: non ha solamente dato il mantello, lo ha condiviso. È già di per sé un programma pastorale splendido, perché chiede di mettersi in gioco.
San Martino, Milano: la Palazzina solidale, oggi.
- Non
sono mancante le contestazioni all’annuncio del Refettorio e di
quella che qualcuno – in modo strumentale – ha chiamato «casa
degli zingari».
Sì,
ed è stata un’occasione importante perché la comunità ha dovuto
annunciare il Vangelo e saper anche ascoltare le paure e le ansie,
mettendosi in dialogo senza muri ma con braccia aperte. A distanza di
mesi, quella storia ha insegnato che se l’ostilità è contagiosa,
lo è anche la solidarietà. Le contestazioni sono finite e il
Refettorio Ambrosiano è un’esperienza viva nel quartiere,
generativa di nuove energie: proprio per l’alto numero di volontari
abbiamo appena costituito un’associazione per organizzare le nuove
iniziative culturali che affiancano la distribuzione della cena.
Abbiamo ritrovato un ambiente, in disuso da un decennio, nella sua
bellezza, fatta di arte e cultura che si stringono la mano per
includere i poveri.
- Però
non hai mai rinunciato alla chiarezza del messaggio di Gesù…
L’annuncio
del Vangelo non mette tutti d’accordo, non serve per quello. Come
dice San Paolo, ti entra come una spada nella carne fino al punto di
congiunzione delle midolla. Che bello che al convegno di Firenze il
Papa abbia chiesto alla Chiesa italiana di essere inquieta! Ciascuno
di noi è chiamato a vivere questa inquietudine, quella di chi sa che
non “ha fatto abbastanza”, che non è “tutto a posto”, che
c’è da rimboccarsi le maniche. Non siamo chiamati a una fede
vissuta in poltrona, la Bibbia è fatta per mettersi in piedi e
camminare per strada con gli occhi spalancati, soprattutto verso i
poveri.