L'ALFABETO DELL'ETICA
10. Soldi
Non possono mancare "i soldi" in una serie su "L'alfabeto dell'etica", un'indagine
sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle
sfide del nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione
con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata
con l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità
vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del
Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che
identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar
Morin ha indagato il significato di sviluppo; Roberto Mordacci quello di
rispetto; Gabriella Turnaturi quello di vergogna. Gianfranco Marrone
aveva svolto uno studio non scontato sulla stupidità. Massimo Recalcati aveva proposto una nuova idea di paternità nell'epoca della morte del padre.
«Viviamo in un'epoca in cui quasi tutto può essere compRato e venduto.
Negli ultimi tre decenni, i mercati - e i valori di mercato - hanno preso
a governare le nostre vite come mai prima d'ora.
Non siamo giunti a questa condizione
attraverso una scelta deliberata. È quasi venuta da sé»
(Michel Sandel, Quello che i soldi non possono comprare).
«Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c'è Mastercard». Il celebre spot, così efficace da essere entrato nel linguaggio comune, affermava che i soldi (simboleggiati dalla carta di credito) possono comprare tante, tantissime cose, ma che anch'essi devono sottostare a un limite che, per la verità, nella pubblicità restava piuttosto indefinito.
La definizione di tale limite, tuttavia, è una questione centrale del nostro tempo. O, almeno, dovrebbe esserlo, anche se l'impressione è che manchi totalmente la consapevolezza di questa urgenza.
Perché, questa urgenza?
Perché un'attenta osservazione dei fenomeni sociali insinua il sospetto che quel limite sia stato spostato sempre più in là, che continui a essere spostato sempre più in là, con l'effetto che lE cose che il denaro può acquistare aumentano sempre di più, e quelle che non possono essere acquistate dal denaro diminuiscono sempre di più.
In altre parole, la logica del mercato sta progressivamente invadendo sfere della vita che in passato le erano precluse.
È la tesi sostenuta da
Michael Sandel in
Quello che i soldi non possono compare (Feltrinelli), un saggio necessario per i temi etici che affronta e scitto con uno stile semplice, accattivante, che trae continuamente esempi dalla realtà, sottoponendola a una stimolante critica morale. Professore alla Harvard University di Filosofia politica e Teoria del Governo, il nome di Sandel ha raggiunto la notorietà internazionale per i suoi corsi sulla giustizia, seguiti con entusiamo da migliaia di studenti in tutto il mondo (
www.justiceharvard.com, si veda anche
Giustizia dello stesso autore, edito sempre da Feltrinelli).
Saltare una coda, farsi tatuare il corpo con messaggi pubblicitari, concedere l'utero in affitto, pagare le persone perché donino i loro organi, vendere il sangue o parto del corpo, comprare il diritto di inquinare, vendere il diritto di soggiorno agli immigrati in grado di pagarlo... Ecco alcuni casi di invasione delle logiche di mercato in ambiti che ad esse non competevano addotti da Sandel nel suo libro. Sanità, scuola, ambiente, il corpo umano, la nascita di un bambino, nulla sembra risparmiato dalla seduzione del denaro. Come dobbiamo porci di fronte a questa realtà? È giusto o accettabile che tutto sia in vendita? Esiste un limite al denaro? Se sì, come identificarlo e dove collocarlo?
L'analisi di Sandel porterà alla luce due criteri, in grado di rispondere a questi interrogativi. Il primo è che va salvaguardata
l'uguaglianza delle persone. Accettare che con i soldi si possa acquistare tutto, significa riconoscere che non tutti gli uomini sono uguali e godono di uguali diritti. Il secondo, ancora più radicale e innovativo, impone di
verificare se il bene protagonista della transazione non venga corrotto, alterato nella sua natura.
Un esempio, fra i tanti esaminati dal filosofo americano: quando una scuola accetta di concedere spazi alla pubblicizzazione di alcuni prodotti, corrompe il fine per cui la scuola stessa esiste, che è quello di istruire i giovani, un fine incompatibile con quello di trasformarli in consumatori. Un altro:
pagando donne tossicodipendenti affinché accettino di farsi sterilizzare (negli Stati Uniti esistono programmi del genere), si riduce loro e il loro corpo al rango di macchine guaste, mortificandone la dignità.
La domanda fondamentale, sulla quale l'attenzione e il dibattito pubblico dovrebbero essere concentrati, è allora quella che si interroga sulla natura di un bene, cioè su quale valore gli competa.
C'è qualcosa che i soldi non possono e non devono comprare? Se sì, che cosa? Quali sono questi beni inviolabili, non negoziabili? In base alla risposta, sapremo se è vendibile oppure no.
Professor Sandel, la logica del mercato si è estesa a sfere a cui in
passato essa non competeva. Come è potuto accadere questo fenomeno, che
lei stesso definisce uno dei più importanti della nostra epoca?
«Credo che la logica del mercato abbia invaso tutte le sfere della vita negli ultimi 30 anni. Gradualmente siamo passati dall’avere delle logiche di mercato all’essere
una società di mercato. La differenza sta in questo: l’economia di
mercato è uno strumento, valido ed efficace, ma è uno strumento, utile
per organizzare la produzione. Al contrario, una società di mercato è un posto
dove tutto è in vendita, è un way of life, nel quale i valori e
le logiche di mercato dominano ogni ambito della vita. È questo ciò
che mi preoccupa: diventare una società di mercato».
Come è potuto
avvenire questo passaggio?
«In parte credo che sia accaduto alla fine della Guerra
fredda, un evento che è stato male interpretato. Abbiamo pensato che la
fine della Guerra fredda significasse l’esistenza di un unico sistema,
il capitalismo, come se esso rappresentasse la medesima cosa in ogni
angolo del mondo e per tutti. È come se il trionfo del mercato avesse
stabilito che le sue logiche e i suoi valori rappresentano il nostro
bene comune. Questo, per me, è un grave errore. Ma è anche un’idea molto
influente oggi. E la ragione della forte influenza, della forte
attrattiva di questa idea è che la logica del mercato sembra essere un
modo neutro per decidere, una forma imparziale per decidere delle
questioni sociali ed etiche. Ma i mercati non sono neutri. La cosa
preoccupante è che ad essi, e ai loro valori, abbiamo delegato la
responsabilità di risolvere le questioni morali. Infatti, se ne vedono
le conseguenze sul dibattito pubblico, sempre più impoverito e in realtà
scevro di temi etici. Abbiamo smarrito la capacità di avviare un
dibattito etico a livello pubblico. Uno degli scopi di questo libro era
quello di incoraggiare, di ispirare un dibattito».
Lei denuncia la scomparsa di questo dibattito a livello pubblico, e, cosa ancor più grave, anche politico.
«Accade in tutte le democrazie attuali: il vuoto morale regna sovrano nel discorso pubblico. Ed è una delle ragioni per cui la gente è così
disillusa rispetto alla politica e ai partiti. Il discorso
pubblico è dominato in tutto il mondo da questioni piccole,
burocratiche, molto più che dalle grandi questioni morali ed etiche. Eppure penso che ci sia una grande fame da parte dei cittadini
di affrontare tali temi nella dimensione comunitaria».
L'invasione del mercato e dei suoi valori era comprensibile quando l'economia globale cresceva e creava prosperità. Oggi che il mercato è in crisi, come si spiega
l’assenza di un’analisi dei limiti da imporgli? Perché
questo modello continua a riscuotere successo?
«Una bella domanda. Un rebus che va spiegato. In seguito alla crisi
finanziaria del 2008 si pensava, io stesso lo pensavo, che la crisi
decretasse la fine di trent’anni di fede cieca nei mercati. E penso che
molti si aspettassero l’apertura di un confronto pubblico sul ruolo e i
limiti del mercato. Ma questo non è successo. E la ragione sta
nel fatto che l’appeal del mercato va al di là di considerazioni di tipo
economico, al di là della promessa di
prosperità e di crescita del Pil. Il facino dei mercati risiede nel fatto che sembrano offrire la libertà, la libertà per gli individui di
intrattenere scambi di mercato come gli pare e piace. E anche la libertà
di evitare controversie nei dibattiti politici. Ebbene, la mia convinzione è che questa idea di
libertà sia sì molto influente, ma fallace, perché è la libertà del
consumatore, ma non della persona nella sua interezza o del cittadino che vive in
una democrazia. Per riuscire a incoraggiare un dibattito pubblico su
giustizia, beni comuni, limiti morali del mercato bisogna trovare il
modo di articolare una discussione sulla concezione della libertà, su che cosa
significhi essere liberi, al di là del consumo».
Lei mette in evidenza che gli effetti dell’estensione di questa logica
sono due: la negazione dell’uguaglianza e la corruzione del bene in
gioco. Nasce in questo modo una riflessione originale e inedita sui
concetti di eguaglianza e corruzione…
«Sono le due domande che ci dobbiamo porre prima di decidere se e come
usare il mercato nelle varie situazioni. Prendiamo il caso degli uteri
in affitto. Alcuni Paesi hanno legalizzato la pratica delle gravidanze
in affitto, per permettere alle donne povere di crearsi un reddito. In
India, ad esempio. Coppie facoltose pagano donne disagiate affinché portino
avanti per loro la gravidanze e poi dargli il bambino. Ci sono due
possibili obiezioni all’uso della logica di mercato applicata alla
gravidanza. L’argomento dell’uguaglianza dice che le persone che
accettano di vendere il loro corpo per le gravidanze sono donne molto
povere, disperate, quindi non si tratta di uno scambio volontario, fra corpo e
denaro, bensì frutto di una coercizione. Ma c’è un altro argomento
che possiamo mettere in campo. Se anche questo scambio fosse davvero
condotto su basi volontarie, se anche fosse uno scambio fra pari, resta
il fatto che i corpi di queste donne viene utilizzato come se fosse un
servizio, uno strumento. In questo senso, è una violazione della dignità
della persona. Che rovina, corrompe non solo il corpo della donna, ma
anche il legame fra genitore e figlio. Questo è l’esempio di una doppia
valutazione morale, applicabile a tutte le situazioni».
Lei scrive che per porre dei limiti al mercato dobbiamo domandarci qual è
la vera natura di una cosa. Mi sembra la questione cruciale per
l’etica, ma anche il punto su cui siamo in difficoltà, la domanda rispetto alla
quale non abbiamo la lucidità per rispondere.
«La società moderna pluralista non è d’accordo su che cos’è un bene, non è
che non abbia la risposta. Ha risposte diverse. Siccome poi non abbiamo
una risposta univoca, siamo tentati a lasciar fuori la questione su che
cosa sia il bene comune, a toglierla dal dibattito. Ma è un errore
chiedere ai cittadini di lasciare le loro convinzioni morali fuori o
dietro di sé nel momento in cui entrano nella piazza pubblica. Abbiamo
bisogno di discutere pubblicamente su che cosa sia il bene, nonostante
la possibilità di disaccordo, perché non possiamo sapere in anticipo
quando una discussione porterà a un accordo e quando no. Bisogna
provarci. E anche se non ci si trovasse d’accordo, il fatto di essersi
impegnati in una discussione pubblica approfondisce la cittadinanza
democratica delle persone».
A causa della crisi finanziaria e del debito accumulato dagli Stati, questi chiedono sempre più spesso
l’intervento dei privati nella scuola, nella gestione dle patrimonio culturale e ambientale, nella sanità.
Come valuta questa tendenza, questa apertura ai privati?
«La mia è un’università privata, sostenuta da donazioni, ma non è
un’organizzazione che mira al profitto. In generale, nell’istruzione c’è spazio per
il privato, purché il fine non sia il profitto e alla condizione che promuovano i valori
dei beni comuni e l’accesso degli studenti di ogni ceto sociale. Se le
fondazioni o i privati donatori sostengono le istituzioni scolastiche, ad
esempio, può ancora essere un bene, sempre che l’accesso
sia consentito a tutti, poveri e ricchi».
E nella politica?
«Il finanziamanto privato in politica è praticato nel mio Paese, gli Stati Uniti. Secondo me, è un sistema che non funziona, perché le campagne politiche sono sempre
più determinate dal denaro privato. Il pericolo è che i politici
che sono stati eletti grazie a questi capitali diventino automaticamente dipendenti dai
donatori: così sarebbe difficile governare nella logica del bene
comune. Sarebbe meglio avere campagne politiche finanziate con soldi
pubblici, porre un limite alle donazioni private e concedere a tutti un tempo
uguale in televisione».
Lei analizza molti ambiti di invasione dei valori di mercato. Fra tutti, quale
la preoccupa di più?
«Quando la democrazia stessa è dominata dalle logiche di mercato, e ciò
accade in due maniere. La prima, quando il denaro domina le campagne
elettorali e quindi le politiche future. Ma c’è un altro modo in cui le logiche di mercato dominano
le democrazie: una democrazia sana e vitale richiede
che i cittadini condividano una vita pubblica e si incontrino in luoghi
pubblici. Il venir meno di questo spazio comune, la crescente separazione fra ricchi e poveri, insieme all’aumento della
disuguaglianza causa una minaccia per la democrazia. È
grave, questa separazione di censo, perché erode il senso di
comunità che sta alle fondamenta di ogni democrazia».
In assenza di un dibattito pubblico, qual è la cosa più urgente da fare
per cominciare a porre limiti al mercato?
«Il rafforzamento delle istituzioni della società civile, inclusi i
movimenti sociali, le comunità religiose, i sindacati, i movimenti
ambientalisti, le associazioni culturali… Questi movimenti si collocano a
metà strada fra lo Stato e l’individuo. Sono luoghi che possono riunire i
cittadini in forme che contribuiscono al bene comune. C’è la necessità
che le istituzioni della società civile vengano rafforzate, perché
rappresentano un’alternativa, una terza via fra lo Stato e le logiche
dei mercati».