Capire perché uno scrittore
di successo sia rimasto intrigato
dal Vangelo di Marco,
al punto da scriverne un
libro dopo anni di studio
e farne uno spettacolo teatrale
in cui per la prima
volta cercherà di trasmettere
agli altri il suo entusiasmo mettendosi
in gioco anche fisicamente, è
utile anche al credente per riscoprire le
ragioni della sua fede, la tremenda bellezza
della figura di Cristo.
È da poco in
libreria Non dirlo (Bompiani), nel quale
Sandro Veronesi racconta “a modo
suo” il secondo Vangelo sinottico.
Perché dunque un autore pluripremiato,
che ha firmato romanzi importanti
come La forza del passato, Caos
calmo e Terre rare si è avventurato in un
territorio delicato e inedito? «Quando
Giovanni Paolo II, nel 1996, propose
il Vangelo di Marco alle famiglie in
preparazione del Giubileo, mi decisi a
leggerlo. Come molti altri, conoscevo
meglio Matteo, il Vangelo degli intellettuali,
quello con cui si erano misurati
Pasolini, Fellini... Nei confronti di
Marco nutrivo un pregiudizio diffuso,
che fosse primitivo, non all’altezza degli
altri. Però se il Papa lo aveva suggerito
per il Giubileo, mi dissi, valeva la pena riprenderlo in mano». Da notare
che l’atteggiamento con cui Veronesi si
accosta a Marco è «quello del non credente,
anche se non ho mai ripudiato
la formazione cristiana ricevuta da
ragazzo e non ho mai caricato la mia
laicità di accenti anticlericali».
Da che cosa dunque è stato affascinato
l’autore? Dalla modernità stilistica
di Marco, più volte elogiata? «No: è
la luce che il Vangelo getta su Cristo,
fin dalla prima scena. E il fatto che tale
luminosità venga restituita rinunciando
alla parola, cioè tagliando ad
esempio il Discorso della Montagna,
una delle parti più ricche di nettare.
Una luce che trascende ogni passione,
ogni opera che fino a oggi mi abbia entusiasmato.
Il punto decisivo è che il
Vangelo di Marco è stato il testo di riferimento
a Roma per migliaia di martiri,
il testo che ha ispirato, soste nuto, dato forza alla resistenza dei
cristiani nei primi secoli di persecuzioni,
no a convertire un imperatore».
Marco presenta all’interlocutore che si è scelto, il cittadino romano, una sorta di “thriller sulla personalità” di Cristo che gravita intorno alla domanda: chi è costui? E sebbene la risposta, come nei telefilm del tenente Colombo – osserva Veronesi – sia svelata già al settimo versetto con la prima teofania, una generazione di increduli si dimostra incapace di riconoscere i segni del compimento della promessa messianica. «“La tradizione ebraica non lo accetta, è più facile che a convertirsi sia un romano”, deve aver pensato Marco».
JESUS CHRIST SUPERSTAR. Ed ecco allora dispiegarsi un meccanismo narrativo concepito per sedurlo, basato non sulla parola, ma sull’azione; un Vangelo di potenza, che descrive i gesti di Gesù, i miracoli, la sua forza, il suo carisma. In altri termini, l’evangelista, tenendo sempre ben presente il suo uditorio, trasforma il Cristo in un eroe pieno di fascino, un condottiero da ammirare. Fino alla svolta cruciale, in cui l’eroe, il condottiero, diventa il Crocifisso. «È lì, solo lì, sotto la Croce che ci si converte: la potenza che porta Cristo è la Croce», spiega lo scrittore. «Prima di questo momento, Marco non poteva chiedere di credere, può farlo solo ora: se un condottiero infallibile, un maestro, un supereroe capace di compiere miracoli mai visti prima si sceglie quel destino, è sconvolgente. E infatti: proprio ora appare il centurione romano che riconosce che Gesù è il figlio di Dio. Poche opere dell’ingegno sono state composte con simile abilità: è una macchina da conversione perfetta. Solo lì, sotto la croce, Marco chiede una torsione spirituale al proprio lettore. Quell’affascinante luce che emana da Cristo si manifesta nella caduta. E questo è ancora più moderno delle Beatitudini, che Marco ha deciso di tralasciare. Non dimentichiamo che la croce è stata sussunta da Roma, è diventata il suo simbolo. È per questo che, quando entro in cimiteri non cattolici, avverto la mancanza delle croci, mi sento sperduto. È per questo che il Cristo che scende dalla croce, come ha immaginato Martin Scorsese in La tentazione di Cristo, è inaccettabile: io, non credente, sono stato sconvolto da Cristo che scende dalla croce. Quel gesto racconta l’angoscia di un mondo senza croce. E tutto questo lo troviamo in Marco».
Sono parole forti, capaci di evocare il centro autentico del cristianesimo. Per questo chiediamo a Veronesi se, studiando il Vangelo di Marco e poi scrivendo il libro, ha compiuto lui stesso un percorso, come è stato invitato a fare il lettore romano che, dopo aver amato il Cristo eroe, è stato chiamato alla fede nel Cristo crocifisso. «Se l’ho fatto, è incompiuto: la mia attitudine religiosa è rimasta identica, è cambiato il mio amore per Cristo. D’altra parte, come si può non amarlo? Anche il non credente ha diritto di amarlo. Il lavoro che ho svolto mi ha condotto ad ammirarlo per le cose straordinarie che gli vengono attribuite. Ad esempio, quando, nella disputa con gli scribi su che cosa sia lecito mangiare, dice che “non è ciò che entra nella bocca dell’uomo a corromperlo, ma ciò che esce da lui”, in brevi parole contempla tutto ciò che non è misurabile nella nostra cultura occidentale: la spiritualità, la psicanalisi, l’anima, tutto... Arriva no a noi, che siamo i romani di oggi».
LA PAURA E LA SFIDA. E poi c’è quella chiusa: «La versione originaria del Vangelo di Marco finiva con la parola “paura”», osserva lo scrittore. «L’evangelista ci dice, onestamente: questo è il mio racconto su Gesù Cristo, la tua vita cambia, tocca a te decidere che cosa fare... Ora comincia la sfida. E se non senti la paura, vuol dire che non mi hai preso sul serio. Negli altri Vangeli, invece, prevale la Gloria della Risurrezione».
Non dirlo è una traccia del monologo che Sandro Veronesi porterà in diversi teatri. Le prime date sono: al Festival dei Due Mondi di Spoleto il 28 giugno e alla Milanesiana il 29 giugno.