Di Sara Ceccherini colpisce la
sorprendente normalità con
cui affronta la vita. Nata nel
1985 e residente a Partina, paesino
in provincia d’Arezzo, lavora
al servizio clienti di una nota azienda
informatica. Ha una malattia genetica
che rende le ossa fragili, ma il suo carattere
è tutt’altro che debole. Prima mamma
italiana con questa malattia, ci svela i segreti
del suo vivere diversamente.
Che tipo di persona sei?
«Sono una donna che cerca di vedere
sempre il lato positivo della vita, amo
essere in mezzo alla gente e sono sempre
pronta a fare e a sperimentare. Amo
viaggiare, perché in ogni luogo del mondo
impariamo cose che possiamo portare
con noi per sempre e che arricchiscono
la nostra anima».
Che cos’è per te la fragilità?
«La fragilità può essere vista come un limite
mentale. Se ci pensiamo, tutti siamo
fragili in qualche maniera. Chi lo è per
qualcosa che sta succedendo, chi lo è, come
me, a livello osseo... Per me è stata
una realtà con la quale ho sempre convissuto,
quindi non mi sono mai posta grandi
limiti, anche se so benissimo che potrei
cadere o farmi male per cose banali».
Come hai scoperto la tua malattia e
di che cosa si tratta?
«L’osteogenesi imperfetta è una malattia
ereditaria che provoca accentuata fragilità
delle ossa. Le persone affette subiscono
fratture apparentemente spontanee,
o in seguito a traumi lievi, e le loro ossa
possono subire delle deformazioni. Se ne
conoscono quattro tipi. Io sono affetta
dal tipo tre, che comporta deficit staturale
grave, scoliosi severa, dentinogenesi
imperfetta e anomalie della conformazione
del viso e delle sclere degli occhi.
La malattia è stata diagnosticata al sesto
mese di gravidanza di mia mamma, evidenziando
che il mio corpicino aveva
qualche imperfezione».
Immagino che tu abbia avuto
un’infanzia complicata...
«Dai due anni son stata seguita da un medico
di Parigi, subendo operazioni e facendo
riabilitazione. Più tardi, sono stata
sottoposta a una cura per aumentare la
densità ossea, qui in Italia. Diciamo che
da piccola non è stato molto facile affrontare
la malattia. Quanto arrivi ai 6-8 anni
e vedi tutti i bambini che corrono e saltano,
e tu quelle cose non puoi farle, inizi a
farti delle domande. E ti senti diversa dal
mondo intero. Poi, però, capisci che puoi
fare tante altre esperienze e devi concentrarti
ed essere contenta per quelle, anche
provando a farne di nuove».
E tra queste nuove opportunità tu
hai iniziato a viaggiare, vero?
«Sono sempre andata a ballare e uscita
con gli amici. Ho viaggiato e continuerò
a viaggiare tanto, anche se non nego che
potrebbe capitare di cadere e di fratturarmi.
Ma non posso tarparmi le ali soltanto
per paura. La vita è una sola, e va
vissuta in ogni sua sfumatura. Se si hanno
dei problemi… Beh, bisogna prenderne
atto e sorpassarli».
In uno di questi viaggi hai conosciuto
Robert, tuo marito…
«Era il 2010, durante la mia seconda vacanza
in Kenya. Venne a sostituire il fratello
che, quel giorno, non poteva accompagnarci
in un’escursione che sarebbe
durata l’intero giorno. Non sapevo quando
sarei tornata in Kenya, quindi mi ero
imposta di non investire tanti sentimenti,
ma lui mi scriveva sempre. Così sono
tornata da lui e la cosa è diventata seria».
Tanto che è arrivato Kevin…
«Nell’ottobre 2013 ho scoperto di essere
incinta. Robert era ancora in Kenya e ci
dovevamo sposare a dicembre. Dal ginecologo,
mia mamma è quasi svenuta e io
ero incredula e non sapevo come gestire
la situazione, ma presto è stato tutto chiaro.
La paura maggiore era di trasmettere
a mio figlio la mia patologia. E quando ho
visto nell’ecografia che Kevin non aveva
fratture e le ossa non erano malformate
è stata una gioia immensa. E sono andata
in Kenya a sposarmi».
Sei una delle poche persone in Europa
con l’osteogenesi imperfetta
a essere madre: che cosa pensi di
questa tua condizione?
«Va detto che, in gravidanza, ogni tre settimane
ero all’ospedale Meyer di Firenze
per i controlli sul nascituro, e lì mi hanno
fatto sentire molto tranquilla. La voglia
di maternità è una cosa legittima per
ogni donna, anche per quelle che possono
avere più difficoltà, e penso che tentare
valga veramente la pena».
Che cosa ti piacerebbe che tuo figlio ti dicesse, un giorno?
«Innanzitutto, vorrei che fosse come
me, pieno di vita e gioia, felice di essere
in questo mondo. E vorrei che mi dicesse
“mamma ti voglio bene”, perché non
sempre sono cose facili da dire ai genitori.
Penso che, se i propri figli ti dicono
questa frase, allora sarai stata una buona
mamma davvero».