Don Luigi Guglielmoni e la copertina del libro
L’attenzione ai migranti, dalla cura pastorale alla denuncia delle condizioni disumane in cui spesso si trovano, è il filo che unisce papa Francesco a San Giovanni Battista Scalabrini, il vescovo di Piacenza che proprio Bergoglio ha canonizzato domenica scorsa in piazza San Pietro. Don Luigi Guglielmoni, teologo, autore di numerose pubblicazioni e parroco di Busseto, la terra di Giuseppe Verdi e di Giovannino Guareschi, ha scritto un libro, che sta per uscire anche in edizione inglese e spagnola: Papa Francesco e il beato Giovanni Battista Scalabrini. Evangelizzazione e solidarietà verso i migranti (Edizioni CSER).
Cosa unisce Scalabrini e papa Francesco?
«Pur essendo lontani nel tempo, questi due “grandi” della vita della Chiesa sono uniti dall’amore a Cristo e dalla sollecitudine per l’evangelizzazione, dalla passione per l’uomo e dalla ricerca del bene comune, dall’attenzione alle periferie della storia e dalla sensibilizzazione al fenomeno migratorio, dal ripensamento del modello di economia e di sviluppo e dallo sguardo ampio alla società locale e al mondo, dal senso di responsabilità verso le nuove generazioni e verso il futuro».
Perché ha deciso di approfondire in parallelo queste due figure di pastori?
«Perché colgo tante somiglianze tra loro nel modo di essere Chiesa, di fare catechesi e la pastorale, testimoniare il Vangelo nella quotidianità, di salvaguardare l’umano nel contesto del progresso tecnologico, di vedere il bene ovunque, di fare ciò che è possibile oggi, di preparare un futuro migliore per tutti».
In che cosa Scalabrini fu innovativo nella pastorale dell’emigrazione?
«Scalabrini è stato lungimirante facendo discernimento sulle cause del fenomeno migratorio e sulle sue conseguenze sociali e religiose; ha impostato un’adeguata risposta legislativa, organizzativa, sanitaria e pastorale; ha collaborato con altri, da monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, più dedito alla migrazione degli italiani in Europa, a santa Francesca Saverio Cabrini; ha coinvolto i vescovi dell’Italia e dei Paesi che ricevevano le migliaia di italiani migranti, come pure è stato in costante contatto con il Papa e le Congregazioni romane; ha fondato i Missionari di San Carlo, la Società di patronato San Raffaele e la Congregazione delle Missionarie di San Carlo. Non ha mai voluto agire da solo né limitarsi a qualche gesto di “carità”. E tutto questo, senza mai trascurare la sua attiva presenza in diocesi a Piacenza».
Perché il Papa ha voluto dispensare dal secondo miracolo, necessario per la canonizzazione?
«Perché Scalabrini è una figura eminente per la sua preparazione culturale, la profondità dei suoi scritti e l’esemplarità della sua vita. È certamente un “modello di vescovo” tra la gente, generosamente dedito alla Chiesa, desideroso della santità, sobrio nello stile di vita, attivo collaboratore di tre Pontefici, Pio IX, Leone XIII e Pio X, “libero” di fronte al potere temporale del Papa, la “Questione romana” che agitò il suo tempo, capace di dialogo e di mediazione, attento ai poveri. Inoltre la sua sensibilità ai migranti stimola i pastori, i fedeli e tutti a guardare con occhi rinnovati al fenomeno migratorio, che è certamente uno dei segni del nostro tempo globalizzato».
Come nasce l’interesse e l’attenzione di Scalabrini verso gli emigranti?
«Dal vedere la sua gente costretta a lasciare la propria patria in cerca di un lavoro per mantenere i familiari e migliorare la propria condizione sociale. Spesso era un partire per disperazione e illusione, all’avventura, senza alcuna preparazione, dalla lingua alla professione, dalla coscienza dei propri diritti alla conoscenza dei Paesi di arrivo, col pericolo dello sfruttamento lavorativo e abitativo, dell’affievolimento o dell’abbandono della fede, della recisione con le proprie radici nazionali. Non è stato un progetto a tavolino ma sollecitato dalla realtà della sua gente, che egli amava intensamente. Si è trattato di un atto di amore creativo».