Qualche giorno fa la Mercedes ha licenziato Michael
Schumacher. Il prossimo Mondiale partirà senza di lui. Una notizia passata
senza quasi clamore, come se fosse stato lasciato a piedi uno dei tanti. E
questo quasi silenzio è più significativo di molte parole. Ci dice che Michael
Schumacher, quello che macinava gran Premi, Mondiali, a volte anche avversari,
non era più davvero in F1 dal 2006 quando se n’era ritirato vincitore. Quello
che abbiamo visto in questi tre anni è stato un altro pilota, cui, dopo il clamore del rientro, ci
siamo riabituati fino a non notarlo quasi più. Un caso, il suo, che dovrebbe portare, se lo sport fosse avvezzo alla riflessione, a riflettere di più su uno dei problemi che non risparmia, in quel mondo, nessuno. Ancora meno i migliori.
Ogni
campione vince avendo dentro una certezza: la vita al vertice dello sport ha
una data di scadenza. Tutti lo sanno, ma i più nel subconscio rimuovono, prima
dell’appuntamento reale, l’appuntamento mentale con l’idea di dover, ancora
giovani e ai vertici, lasciare la cosa che definisce il loro posto nel mondo,
anzi in cima al mondo. Il più delle volte lasciano per saturazione, stanchi di
viaggi forzati, limitati a campi di gara e aeroporti, stanchi di dover vincere
sempre o per il timore di non saper vincere più. Restare al vertice costa,
anche se spesso il compenso vale eccome la candela.
A un certo punto si
desidera la normalità, senza sapere più bene di che si tratti, senza sapere che
non è solo calma ma anche grigiore, noia, difficoltà a inventarsi una vita per
cui gli altri, i comuni mortali, si preparano da sempre. Il più delle volte si lascia lo sport
senza un’idea di quello che si farà dopo, quando è il caso accontentandosi
della consapevolezza di aver guadagnato abbastanza - ma non tutti possono contare su questa certezza -, altre volte semplicemente
rinviando all’ultimo i conti con quel passaggio chiave, sperando che basti
dedicarsi alla famiglia per dare senso a un ritiro infinitamente anticipato
rispetto alla quotidianità dei normali.
All’inizio sembra facile avere tanto
tempo davanti e la libertà di gestirlo, e invece per chi è stato campione i
riflettori che si spengono sono spesso un buco nero, di cui il ritorno
all’agonismo dopo un periodo di inattività è un effetto collaterale, nonché
spesso un buco nell’acqua. Sono pochi i ritorni vincenti. E comunque sono solo un modo di
rinviare il problema cruciale dello sport di vertice: lasciarlo senza vivere di
ricordi. Forse è anche un problema morale degli adulti che ruotano attorno ai
giovani sportivi: insegnano loro a focalizzarsi sul risultato, com’è giusto, ma
spesso dimenticano di accompagnarli a gestire l’ignoto che li attende alla fine
del giro d’onore.