Il lettino della pena capitale di Huntsville, in Texas. In copertina: Scott Panetti.
Arriva una buona notizia dal braccio della morte di Huntsville in Texas: Scott Panetti, il malato mentale a cui, su ordine dello Stato, doveva essere iniettato il cocktail di veleni alle 18 del 3 dicembre scorso, non è stato ucciso.
Pochi minuti prima dell’esecuzione, come già era successo nel 2004, il Quinto Circuito della Corte d’Appello ha concesso un rinvio e il governatore Rick Perry ha dovuto prenderne atto. La condanna di Panetti, che ha una diagnosi di schizofrenia dal 1978, non viene annullata, ma ricomincia il conto alla rovescia verso una data non nota.
Ray, un detenuto ucciso nel 2006, così raccontava a un “amico di penna” della Comunità di Sant’Egidio come si sente un dead man walking (un “uomo morto che cammina” nel linguaggio delle carcerari americane): «Sono arrivato a preferire cent’anni di prigione, che quasi mi sembrerebbero la libertà. Non avrei mai e poi mai pensato di finire così: non sono solo le regole della prigione a rendere tutto così duro, ma è anche il ripetersi di ogni giorno chiuso in una cella di due metri e mezzo e uno e mezzo, con a stento lo spazio per stendere le braccia. Sai che se apro le braccia tocco entrambe le pareti? In pratica sono chiuso in un cassetto per vestiti per 23 ore al giorno».
Motivando la sospensione dell’esecuzione di Panetti, la Corte d’Appello ha chiesto tempo «per esaminare materiale legale complesso e arrivato in extremis». In realtà, un fatto è già chiaro: Scott è un malato mentale. È quello che hanno ricordato anche i vescovi cattolici texani, secondo cui, anziché sul lettino per l’iniezione letale, Panetti dovrebbe essere trasferito in un’istituzione specializzata nella cura dei suoi disturbi. In un comunicato, la Conferenza episcopale ha ribadito che «la pena di morte è immorale» e hanno «sollevato con forza l’opportunità di esercitare clemenza nei confronti di un uomo a cui molti medici hanno diagnosticato gravi infermità mentali».
Infatti, già prima del 1992, l’anno in cui ammazzò gli ex suoceri, era stato ricoverato 14 volte per problemi psichiatrici; al processo, rifiutando di farsi difendere da un avvocato, chiamò a testimoniare personaggi come Kennedy e Gesù Cristo.
Sulla decisione della Corte probabilmente ha influito la mobilitazione internazionale, dalle 94 mila firme giunte sul tavolo del governatore Perry grazie alla mobilitazione della Comunità di Sant’Egidio e di altre associazioni, agli interventi a favore della vita del New York Times, del Consiglio d’Europa, di neuroscienziati, di esponenti evangelici e cattolici e attivisti di varia provenienza.
Il giorno prima dell’esecuzione, era intervenuta anche l’Onu. Da Ginevra, Juan Mendez, il Relatore speciale sulla tortura, aveva ricordato che «la legge internazionale considera l’imposizione della pena di morte su persone con disabilità mentali una violazione del bando della tortura e di altre punizioni o trattamenti inumani e crudeli».
Per Panetti erano arrivati anche sostenitori inediti. Venti leader conservatori tutti favorevoli alla pena di morte, tra cui l’ex ministro della Giustizia della Virginia Ken Cuccinelli, si erano appellati a Perry dicendo che l’esecuzione di un malato mentale rischiava di mettere in pericolo il sostegno dell’opinione pubblica a questo strumento.
La pagina facebook di Soheil Arabi, condannato a morte in Iran in questi giorni.
Nuove condanne in Egitto e in Iran
Il
giorno prima del rinvio in Texas è invece arrivata una brutta notizia dall’Egitto.
Il 2 dicembre, la Corte d’Assise di Giza ha stabilito la pena capitale per 188
persone, accusate della morte di 11 agenti nell’assalto di un commissariato,
durante le manifestazioni successive alla destituzione di Mohamed Morsi nell’agosto
del 2013. Si sommano alle condanne a morte, per ora non eseguite, del maggio
scorso ad altri 683 sostenitori dell’ex
presidente. I processi di massa compiuti in Egitto contro i sostenitori
dei Fratelli musulmani sono stati definiti dalle Nazioni Unite «senza precedenti
nella storia recente».
Infine,
in questi giorni, dall’Iran è stato diffuso un appello per Soheil Arabi, 30 anni, fotografo padre di una bambina
di 5 anni. Le accuse a suo carico sono di aver insultato il Profeta Maometto e
di «aver diffuso la corruzione sulla terra» attraverso dei post sulle otto pagine di social
network che gestiva sotto diverse identità. Foto e immagini del suo profilo facebook,
insieme a una confessione rilasciata durante gli interrogatori, costituiscono l’impianto
probatorio dell’accusa in un Paese dove, nei soli primi sei mesi del 2014, sono
state giustiziate 411 persone.