«All’improvviso, per qualche giorno, ogni altra preoccupazione ha ceduto il passo al problema dei problemi: “Avremo scritto per bene nei verbali gli orari degli esami di riparazione?”». Un professore di un liceo di provincia sintetizza in questa frase il genere di ansia che attanaglia una scuola minacciata di ricorso. Nella sua minuzia l’aneddoto rende l’idea del disagio che serpeggia nel mestiere di insegnare, persino più di quanto non facciano i casi dei professori malmenati, aggrediti, addirittura sfregiati per un rimprovero indirizzato a un alunno.
Ci sono stati gli episodi eclatanti, concentrati pericolosamente nella cronaca recente, citati nei discorsi del Papa e del presidente della Repubblica: dalla professoressa ferita al volto da un alunno nel casertano, al vicepreside aggredito da un padre a Foggia, passando per il ricorso (respinto) al Tar contro una licenza media presa con il 9 anziché con il 10. Sono la punta affiorante e grave di un iceberg fatto di quotidiane contestazioni piccole, formali e informali, che costringono insegnanti e dirigenti a preoccuparsi di questioni burocratiche minuscole, per cautelarsi in caso di contenzioso. Mentre dentro le aule si scaricano i problemi grandi del mondo di fuori.
La contraddizione è evidente: da un lato nei discorsi pubblici si invoca la scuola come soluzione, quasi taumaturgica, alle questioni enormi del presente (disagio giovanile, difficoltà di integrazione, cyberbullismo, baby gang...) che le arrivano da fuori e che le si riversano dentro, essendo la classe la prima cellula di Stato che si sperimenta al di fuori della famiglia. Dall’altro lato, contestando alla scuola ogni decisione anche secondaria, se ne mette in discussione l’autorevolezza, complicandole pure la funzione primaria: l’istruzione.
La cattedra è una frontiera sulla quale ci si sente esposti. Tanto che la ricerca scientifica annovera lo stress, fino al cosiddetto burnout (il rischio di scoppiare) tra le malattie professionali della scuola, non solo italiana.
Anche se, come spiega Luisa Vianello, che ha svolto sul tema una tesi sperimentale di Dottorato in Psicologia dello sviluppo e ricerca educativa: «Queste problematiche sono connesse al territorio. Ogni Paese ha le proprie specificità: sono a rischio stress tutte le cosiddette “helping profession” (professioni di aiuto, ndr), quali psicologi, infermieri, educatori...Il lavoro dell’insegnante ne fa parte, ma è l’unico nel quale il lavoratore si trova a strettissimo contatto con l’utenza per almeno 4 ore al giorno, per 5 giorni a settimana, per periodi che vanno dai 3 ai 5 anni». Il che amplifica la pressione psicologica. Nella parte della ricerca somministrata a risposte aperte, gli insegnanti del campione hanno indicato come fonti di disagio: il coordinamento di alunni difficili e la mancanza di rispetto; la scarsa collaborazione dei colleghi; nella relazione con i genitori la presunzione di commentare le scelte dei figli e la non accettazione delle loro difficoltà; l’eccessiva burocrazia.
Di sicuro, non per caso, sono argomenti che ricorrono anche nelle testimonianze che abbiamo raccolto tra gli insegnanti, comprese quelle che non tendono al pessimismo.
«Ci sono genitori che mi scrivono: “Come faccio a farla pagare a quell’insegnante?”. Ma vi pare normale?», a parlare così è Isabella Milani, per trent’anni docente di italiano, oggi prestata alla scrittura. Non è il suo vero nome, ma uno pseudonimo in omaggio a don Lorenzo Milani. Colleghi e genitori la conoscono con quello, grazie al successo del suo sito sulla scuola www.professoressamilani.it Uno dei suoi libri, Maleducati o educati male, è dedicato proprio alla tormentata relazione scuola-famiglia: «Il problema», spiega Isabella Milani, «non nasce in classe, ma a monte nel discredito sociale che, da almeno vent’anni, si getta sulla figura del docente. È una funzione controcorrente, per certi versi: noi a scuola insegniamo la pazienza, la fatica dell’apprendere; argomenti contraddetti da un sistema economico che spinge al consumismo, messi in questione da spot che pubblicizzano strumenti per andare veloci, risparmiando fatica, o l’acquisto di rimedi rapidi a ogni minimo malanno. In un contesto in cui società e genitori non hanno stima dell’insegnante, che la vulgata vuole incapace, fannullone, pronto ad avercela con i ragazzi, ogni rimprovero ai figli diventa un’onta inaccettabile».
Proviamo a chiederle quali siano gli errori più comuni in quella che pare un’ex alleanza degenerata in coniflitto: «I genitori spesso pretendono di sostituirsi all’insegnante nel valutare ciò che accade a scuola, senza tener conto del fatto che il docente è il professionista della situazione ed è l’unico con la visione complessiva della classe. In caso di problemi sarebbe d’aiuto per tutti se il genitore evitasse di screditare l’insegnante davanti al figlio: meglio ragionare in un colloquio privato che disorientare il ragazzo “mettendolo in mezzo”. L’errore principale degli insegnanti viene di conseguenza: temono l’aggressività dei genitori e li accolgono prevenuti, invece non dovrebbero stancarsi di spiegare, perché spesso l’incomprensione reciproca è frutto di malintesi. L’altro problema è a monte, andrebbe prevenuto in fase di reclutamento: ci sono docenti che sanno tutto della loro materia ma non hanno autostima sufficiente a gestire una classe: i ragazzi faticano a rispettarli perché non li riconoscono come guida».
La cosiddetta “Buona scuola”, nome mediatico della riforma più recente avviata nel 2015 tra mille contestazioni (l’ultima indetta dall’Associazione italiana docenti e formatori è prevista per il 23 marzo), ha provato a spostare verso la didattica le prove degli ultimi concorsi. Ma ci vorranno anni per capire se abbia o meno colto nel segno. Nel frattempo sappiamo solo che ha sortito, come del resto ogni tornata concorsuale, un’ondata di ricorsi e che il frequente rivoluzionare i sistemi di reclutamento, sempre più lunghi e complessi, a fronte di stipendi inferiori alla media Ue, è uno dei fattori di difficoltà della classe docente. Nonché una delle concause dell’annoso precariato e del continuo bisogno di sanare posizioni rese superate dal susseguirsi di riforme.
Quella su concorsi e graduatorie è la voce più significativa del contenzioso legale sulla scuola (con picco nel 2016). Mentre i ricorsi contro bocciature e risultati scolastici degli alunni, stando ai dati dell’Avvocatura dello Stato, si attestano sulle 2-3 centinaia l’anno, stabili nel tempo, segno che il paventato rivolgersi delle famiglie degli alunni all’avvocato vale (ma vale eccome) più come minaccia che come effettiva azione.
In giorni in cui la scuola ha fatto notizia per le aggressioni agli insegnanti, Lorella Carimali, docente di matematica al Liceo Vittorio Veneto di Milano, invece, è finita in cronaca per essere entrata, unica italiana, tra i cinquanta insegnanti migliori al mondo al Global Teacher prize. Abbiamo provato a capire se si riconosce anche lei nelle difficoltà di cui parliamo: «Respiro il disagio dei miei colleghi dai messaggi in cui mi ringraziano per aver dato speranza, facendo notizia per una cosa positiva. Per parte mia soffro un po’ la mancanza di innovazione e il fatto che siamo percepiti ora come impiegati, ora come missionari, mai come professionisti, ma questo è il nostro tempo: gli studenti sono questi, dobbiamo trovare strumenti per insegnare a loro, non rimpiangere il passato. Personalmente non ho problemi con i genitori: può accadere che si parta da punti di vista diversi ma parlandosi ci si capisce».
Fatti salvi, ovviamente, i casi di grave disagio sociale che portano in classe problemi esterni: «La scuola non ha gli strumenti per risolvere da sola il problema delle baby gang di Napoli. Non condivido, però, la nostalgia delle bocciature: quando uno studente prende l’insufficienza il mio problema non è lasciargli il tre, ma far sì che lo recuperi. All’inizio magari i ragazzi si irrigidiscono, perché non mi accontento che ripetano senza ragionare. Poi quando si accorgono che questa è la chiave che apre al pensiero matematico mi seguono. Se don Milani fosse vivo chiederebbe il potere della parola e della matematica: viviamo in un mondo di dati. Leggerli e interpretarli sarà decisivo per non subire interpretazioni manipolatorie».
Grandi questioni, che però non finiscono mai nelle chat di classe, altro specchio della scuola del nostro tempo, in cui i problemi nascono piccoli e si ingigantiscono di messaggio in messaggio, di malinteso in malinteso, tanto che qualche dirigente scolastico ha vietato ai docenti di partecipare ai gruppi WhatsApp, perché il gioco è pericoloso: non solo non vale la candela, ma si rischia di bruciarsi.