Maltrattamenti, abusi, violenza domestica portano con sé l'idea, per certi versi inevitabile, del bisogno di protezione delle vittime. Una necessità, sia chiaro, che però non aiuta a risolvere alla radice il problema della rabbia che esplode e si manifesta nelle sue formi più crudeli. Come se l'autore di questi atti orribili fosse "altro" rispetto alla questione: un problema del quale si devono occupare forze dell'ordine, tribunali, cronisti a caccia di sangue o programmi televisivi dedicati. Tutti, insomma, tranne coloro che delle risposte, per professione, sono portati a cercarle nonostante tutto. Sforzarsi di cambiare la prospettiva è quello da trent'anni fanno gli operatori del CBM Milano, Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi familiare. Stefano Cirillo, psicologo psicoterapeuta familiare dell'associazione, nell'ambito di una ciclo di incontri organizzati dall'associazione D.i.R.e., Donne in Rete contro la violenza, ha ribadito le linee guida di un approccio "ribaltato" che mette il maltrattante al centro della questione. «Le politiche ispirate unicamente alla tutela della donna e dei minori si sono rivelate gravemente insufficienti. È significativo l'esempio della Spagna, che evidenzia il fallimento di interventi cosiddetti "di genere", orientati alla protezione in comunità segrete della donna in pericolo e dei suoi bambini. Queste misure sono spesso necessarie, o addirittura indispensabili, ma non raggiungono l'obiettivo per due ragioni: la prima, e più evidente, è che non prevedono la presa in carico dell'autore della violenza, che in realtà dovrebbe essere il primo destinatario di un trattamento che gli impedisca di aggredire di nuovo la compagna o una successiva sfortunata partner. La seconda è che spesso devono arrendersi di fronte alla volontà della donna di ricongiungersi al partner che la supplica di ritornare da lui: la donna è vittima della propria dipendenza affettiva nonché dell'illusoria pretesa di redimere il compagno».
Certo serve coraggio, in un momento come quello attuale, per sposare una causa delicata come questa: in pratica, nell'ottica del Centro per il bambino maltrattato, la protezione dei soggetti più fragili della dinamica familiare costituisce solo una parte, per quanto necessaria, di un "irrisolto" ben più complesso e articolato. Solo intervenendo in modo mirato sui soggetti a rischio è possibile "recuperarli" impedendo che si rendano nuovamente protagonisti di atti dei quali pagherebbero conseguenze incalcolabili. Restituire i maltrattanti alla società e alle loro famiglie, in pratica, è possibile, ma serve un grande impegno a 360 gradi.
È qui che il ruolo dei figli può risultare quanto mai indispensabile per rendere davvero efficaci gli interventi degli esperti del CBM: i figli, quand'anche risparmiati dal maltrattamento diretto ad opera del padre, sono quelli in gergo vengono definiti "vittime di violenza assistita", una condizione grave quanto un abuso sessuale subito e invece troppo spesso trascurata o sottovalutata. «La disorganizzazione psichica - prosegue Cirillo - effetto della constatazione della violenza esercitata dal padre sulla madre è infatti seria e duratura. Il magistrato deve intervenire rapidamente su segnalazione dei servizi sociali, delle forze dell'ordine o dei familiari stessi, valutando l'opportunità di interrompere i rapporti del padre con i figli - se non in forma vigilata e protetta - e inviando il padre ai servizi sociali per verificare la disponibilità a sottoporsi a un trattamento terapeutico».
Ma anche qui servono delle avvertenze perché, a dispetto di quello che appare assodato per la collettività, in questa fase non servono interventi sulla coppia, salvo rare eccezioni, ma individuali. Da un lato la mamma sarà chiamata a sgravarsi della dipendenza affettiva dal partner, spesso conseguenza di depressione, o viceversa di onnipotenza salvifica, per instradarla lungo in cammino in cui prenda consapevolezza delle eventuali attenzioni negate fino a quel momenti ai figli. Dall'altro, il papà, prima di procedere con una terapia tesa a esaminare la relazione con la compagna nei confronti della quale sarà comunque accecato da un meccanismo di minimizzazione della propria violenza e di attribuzione alla stessa della responsabilità di averla provocata, va accompagnato in un percorso di presa di consapevolezza del danno che sta infliggendo ai figli: «Portandolo a esaminare le radici del suo comportamento violento, senza mai colludere con la giustificazione del suo gesto criminale, si dovranno rintracciare le ferite infantili che lo fanno sentire incapace di ricevere un riconoscimento affettivo se non pretendendolo con la violenza. Nel trattare sia la donna sia l'uomo, la leva motivazionale più potente per indurre un cambiamento è sempre rappresentato dal possibile benessere dei figli: non sempre il tentativo riuscirà, purtroppo, e a quel punto le misure di protezione dei bambini da provvisorie dovranno trasformarsi in definitive, fino alla perdita della potestà genitoriale».