«Quando lo sport, in questo caso il vostro (il calcio ndr), perde questa dimensione amatoriale, di amateur, non ha senso, si trasforma in una cosa commerciale e semplicemente asettica, senza passione». Parole sante, verrebbe da dire. In senso proprio, dato che vengono da Papa Francesco in occasione dell’incontro con calciatori e i dirigenti del Celta Vigo, club che milita nella Liga spagnola, ma pure metaforico nel senso che se chi governa le squadre di calcio le tenesse a mente, eviterebbe di fare errori clamorosi come non trovare la strada per conciliare una bandiera come Paolo Maldini nello staff con un algoritmo che favorisca una campagna acquisti più redditizia. I dati sono una parte utile al futuro del calcio, possono coadiuvare gli uomini nel fare scelte di investimento oculate, ma non possono sostituire nell’immaginario i simboli, le bandiere, le persone, l’anima di una squadra.
Persino le imprese che devono fare a ogni costo profitto si “vendono” in pubblicità inventandosi una legacy e una bella storia di persone, per dare a un marchio un’immagine più umana e digeribile, per fidelizzare una clientela. Lo sport, tra l’altro, è un’impresa a sé, diversa dalle altre: un biglietto per lo stadio, un abbonamento alla Tv a pagamento si fa per soffrire e gioire dietro a un pallone, per immedesimarsi nei successi e nelle sconfitte della squadra del cuore. Lo sport tutto esiste in quanto fucina di emozioni, la differenza del professionismo sta nel fatto che le vende anche, anche ma non solo: nessuno spenderebbe soldi e giornate di riposo per seguire in trasferta una squadra, se non ci fosse l’attaccamento a una maglia e ai suoi colori, che vivono delle persone che li riempiono. E le squadre sono fatte sì degli acquisti perfetti, da qualche tempo anche dei profitti di cui rendere conto agli azionisti, ma sono soprattutto fatte di storia, di uomini, di azioni belle che fanno battere il cuore a distanza di anni. Chi oggi, giovane, tifa con infinito amore il Torino probabilmente non gli ha mai visto vincere niente di troppo importante, ma quasi certamente ha avuto un nonno che da bambino lo ha preso per mano, lo ha portato in cima alla collina di Superga e gli ha raccontato una lunga storia di eroi con la palla, rapiti in cielo giovani e belli.
Ci sarà la fila oggi ai funerali di quel gran signore di Luisito Suarez, uno dei simboli della grande Inter, scomparso a 88 anni due giorni fa. Accade perché chi non c’era ha ereditato la passione per tradizione familiare, accade perché la palla rimbalza sui piedi degli uomini: uomini, non multinazionali che parlano a comando imbeccate dai procuratori. Certo, nell’era dei club in mano agli sceicchi, agli oligarchi, alle finanziarie, non ci si può illudere che non siano i soldi investiti a fare la differenza, ma lo sport vende e rende quando fa spettacolo, quando fa soffrire per tutta la partita perché non si sa come va a finire, perché può succedere che se la giornata si mette in un certo modo Davide faccia lo sgambetto a Golia.
Dentro di sé lo sanno tutti coloro che amano lo sport e ci perdono, felici di farlo, un po’ il sonno per guardarsi una partita con otto ore di fuso, per il solo gusto di lasciarsi cambiare l’umore dal risultato che ne deriva. E se chi ci investe, coordina, governa lo sport perde la consapevolezza dell’importanza dei sentimenti accompagnano il rimbalzo della la palla, se li trascura per calcolo, c’è il rischio che anche gli investimenti alla lunga ne risentano. Perché, tolti i sentimenti, la passione di chi guarda e la bellezza del gesto di chi gioca, la paura di perdere la voglia di vincere, anche la finale di Champions si esaurisce in 22 uomini in mutande che rincorrono una palla: una cosa senza senso, in cui tra l'altro nessuno investirebbe tempo libero e denaro.