Quanto conta che un’azienda
rispetti l’ambiente? Nella
scelta se prendere questo o
quel prodotto, quanto “pesa”
sapere che un’impresa è
impegnata nella solidarietà
e l’altra no? È importante
che un certo acquisto di alimenti
sia a “chilometro zero” o che i diritti
dei lavoratori siano stati rispettati?
A queste domande ha cercato di rispondere
il convegno Se sei “buono” ti compro,
organizzato il 15 ottobre a Milano
da Famiglia Cristiana in collaborazione
con Centromarca, l’associazione che
raggruppa oltre 200 grandi marchi.
Ebbene, la risposta è che conta. Molto.
E conterà sempre di più, perché il
consumatore si sta trasformando da
“cliente” in “cittadino”, e anche quando
fa gli acquisti è consapevole di “votare
con il portafogli”. «Non è solo un fatto
di crescente sensibilità», spiega Monica
Fabris, presidente di Episteme (istituto
di ricerca sul cambiamento sociale
e sui consumi). «La crisi, la percezione
di precarietà che si vive oggi hanno fatto
saltare alcuni parametri per cui sta
cambiando il rapporto individuo-società.
Una delle conseguenze è che ci rendiamo
conto che “andare avanti così” rispetto
alla tutela dell’ambiente, ai diritti,
all’individualismo è insostenibile».
La novità, precisa Fabris, è che prima
era un tema da “illuminati”, oggi è
sociale, sentito collettivamente. E le
aziende, specie quelle più attente, se ne
rendono conto. Perciò cresce l’impegno
verso la cosiddetta Responsabilità sociale
d’impresa (Csr), ossia le buone pratiche
messe in atto dalle imprese.
«Un’altra novità», aggiunge la sociologa, «è che l’attenzione del pubblico
non è più solo ambientale, ma anche
economica e sociale. L’azienda è
chiamata a essere responsabile e trasparente.
Insomma, come le imprese ricavano
il profitto non riguarda più solo loro,
ma ne devono rispondere: sia se magari
sfruttano il lavoro minorile, sia se
la produzione va in crisi perché sono
state fatte scelte strategiche sbagliate».
Valori e iniziativa
La crisi, per di più,
porta il cittadino-consumatore a guardare
alla sostanza, ad esempio riguardo
alla durata e alla qualità dei prodotti.
In altre parole, cambia il modello di
consumo. E cambia il modo di reagire
degli italiani di fronte a un “mondo instabile
e precario”: c’è chi lo fa in chiave
valoriale; c’è chi, invece, reagisce in
modo più pragmatico: ad esempio privilegiando
lo spirito d’iniziativa, l’intrapresa
di nuove attività, o l’emigrazione
all’estero. Un problema, per le aziende
“responsabili”: non bastano le generiche
buone pratiche, «occorre saper dare
la risposta giusta al segmento di popolazione
che interessa a quella particolare
impresa», sottolinea Fabris.
E il mondo imprenditoriale che fa?
Quali sono le tendenze attuali? Al convegno
l’ha spiegato Paolo Bersani, partner
di PwC, mostrando che è ormai un
dato di fatto, per le imprese, che le azioni
di responsabilità sociale attirano e mantengono
clienti e fornitori, aumentano
motivazione e produttività dei dipendenti,
facilitano le relazioni con i mezzi d’informazione,
con le associazioni e con la
comunità intera (vedi i dati nei riquadri).
«Non basta realizzare buone pratiche,
occorre anche saperle comunicare
», sostiene Alberto De Martini, direttore commerciale di Red Cell. «Occorre
verità e trasparenza su ciò che si fa, e fare
attenzione alla qualità della comunicazione:
se l’azienda viene percepita come
inautentica ci può essere l’effetto
boomerang. Perciò è importante anche
il mezzo: il veicolo per raccontare il
mio impegno non è indifferente. Se
uso un mezzo come Famiglia Cristiana,
la sua credibilità rafforza il mio messaggio
di responsabilità sociale».
«Siamo convinti», conclude Ivo Ferrario
di Centromarca, «che la relazione
con il consumatore si giocherà sulle
modalità con cui le aziende fanno profitto.
Chi saprà interpretare meglio le
aspettative di chi acquista avrà successo.
Tutte le grandi marche “firmano”
un prodotto. Significa metterci la faccia,
stringere un patto con il consumatore,
patto che deve includere approccio
etico al mercato, rapporto con il territorio,
ecoefficienza».