«Ora in Congo c’è una leggera calma, ma arriviamo da anni drammatici, in cui si viveva di giorno in giorno, sempre in fuga, lasciando le case per rifugiarsi nella foresta, con famiglie separate e lo stupro che era diventato normale».
Così il dottor René Lumu, in Italia per un training formativo con la onlus Bambini Cardiopatici nel Mondo, riassume la guerra che è stata la più sanguinosa dopo la Seconda guerra mondiale. Un calcolo approssimativo conta infatti oltre 5 milioni di vittime di un conflitto che dal 1997 sale e cala di intensità continuamente. Le forze dell’Onu, che hanno in Congo la Monusco, la più grande missione di peacekeeping al mondo, sono qui da vent’anni a fare la guardia a una pace che non c’è. «Se non c’è la pace, c’è poco da mantenere», ha detto a novembre al New York Times Martin Kobler, capo della missione.
«La mia città è famosa per i diamanti e il cobalto», continua il dottor Lumu. “Sangue e metalli” potrebbe essere il sottotitolo di tanti scontri dell’ultimo ventennio, guerre in cui si sono mischiati gli Stati confinanti, aggravando le tensioni interetniche, e in cui i ribelli non sono rivoluzionari ma banditi, i governativi hanno le uniformi ma spesso pensano soprattutto al bottino.
Proprio in questi mesi ci si chiede se il disarmo dei gruppi ribelli diventerà effettivo. Si è parlato di questo a fine giugno in un incontro a Roma, su invito della Comunità di Sant’Egidio, che già aveva mediato in passato, tra una delegazione delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr) con Kobler e altri esponenti africani e internazionali. A inizio giugno, sempre al New York Times, durante una cerimonia di consegna delle armi da parte di un’ottantina di ribelli, il segretario del Fdlr Wilson Irategeka aveva detto: «Vogliamo mostrare alla comunità internazionale che siamo seri, che siamo pronti a essere parte del processo di pace». Il 2 luglio, in un incontro in Angola, i ministri degli Esteri dell’Africa Centrale e Meridionale hanno dato ai ribelli sei mesi di tempo per deporre le armi.
Nella comunità internazionale, tuttavia, c’è scetticismo perché il Fdlr è formato dal residuo dei combattenti hutu autori del genocidio in Ruanda, scappati in Congo dopo la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese (a maggioranza tutsi) che li aveva costretti alla fuga. Da allora, vivono nascosti tra i villaggi della foresta, compiono azioni di guerra e soprattutto controllano alcune miniere. Uno dei leader, Sylvestre Mudacumura, è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per il suo ruolo nel genocidio del 1994; cinque dei suoi leader sono stati arrestati in Germania, dieci sono sulla lista delle Nazioni Unite delle persone a cui è vietato viaggiare. Per questi scheletri nell’armadio, Stati Uniti e Ruanda si oppongono al dialogo con il Fdlr. Tuttavia, qualcosa sembra essersi mosso: una parte del movimento sta effettivamente deponendo le armi con tanto di cerimonie di consegna, vedremo se sarà la volta buona.
L’altra incognita riguarda il M23, il movimento comparso nel luglio 2012 e guidato dal tutsi Bosco Ntaganda, anche lui ricercato dalla Corte Internazionale per 18 crimini di guerra, allievo di un altro ricercato ora in prigione in Ruanda, Laurent Nkunda, che dal 2004 aveva guidato la ribellione nel nord del Kivu. Nel 2012, il mondo scoprì l’M23 – il nome deriva dagli accordi, non rispettati, del 23 marzo 2009 tra il gruppo ribelle di allora e il Governo – per l’alto numero di bambini soldato tra le sue fila e perché, nel novembre 2012, conquistò per qualche giorno il capoluogo Goma, la città sul lago Kivu da cui si controllano i commerci dei metalli preziosi della regione.
Durante quel conflitto, ma anche dopo, lo stupro divenne pratica comune e la paura parte della vita quotidiana. A un anno di distanza, l’M23 annunciò di deporre le armi, sconfitto perché aveva perso l’appoggio di Uganda e Ruanda. Ora, dopo la ritirata dall’Est del Congo, una parte dei miliziani ha passato la frontiera con l’Uganda (1200 uomini), una parte quella con il Ruanda (600 uomini) e altri sono rientrati nei villaggi d’origine in Congo. Nel dicembre 2013, a Nairobi, sono stati firmati gli accordi di pace. Parlano chiaro: il M23 può trasformarsi in un partito politico che rispetti Costituzione e regole democratiche, i suoi miliziani reintegrarsi nella società, e ai ribelli verrà riconosciuta un’amnistia per i reati commessi durante la guerra (esclusi genocidio e altri particolarmente gravi). Riuscirà questa trasformazione? Alcuni analisti temono che, se fallisse, potrebbe scattare una nuova ribellione, magari sotto una nuova sigla se il marchio M23 risulterà impresentabile.