Si allarga il divario tra ricchi e poveri.
Ogni tanto arriva un qualche ente prestigioso a metter nero su bianco, con tanto di grafici e statistiche, quello che vediamo benissimo nella vita di ogni giorno. L'ultimo caso è quello dell'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che in un studio dice precisamente questo: oggi, in Italia, il rapporto tra il reddito medio del 10% più ricco della popolazione e il 10% più povero è di 10 a 1. Nell'area Ocse (l'Organizzazione raccoglie 51 Paesi) il rapporto è solo leggermente più equilibrato: 9 volte e mezzo.
Mal comune mezzo gaudio? Macché. Per quanto riguarda l'Italia, se prendiamo in considerazione fasce di popolazione più ampie. Perché il 20% più povero degli italiani dispone del 7,1% della ricchezza nazionale mentre il 20% più fortunato del 39,9%.
Dice l'Ocse che la crisi fa bene ai ricchi, che diventano più ricchi, e male ai poveri, che diventano più poveri. Cosa che diceva già mio nonno una cinquantina d'anni fa, quando ripeteva il detto piemontese: "Sold fa sold, pui fa pui". Ovvero: i soldi generano altri soldi, i pidocchi pidocchi. E poi: in questi anni di difficoltà, avete visto un ricco diventare povero? Io mai. Benestanti perdere un po' di benessere, sì. Gente normale scivolare nel bisogno, anche. Ma ricchi che diventino poveri per la crisi, no. Mai.
Ed è per questo che non credo, a dispetto di quanto dice l'Ocse, che l'enormità della forbice sia dovuta alla crisi. Lo stesso studio, infatti, ci dice che alla soglia degli anni Novanta il rapporto tra ricchi e poveri era di 7 a 1. Vi pare poco? Vi pare normale? Cinque a uno, per dire, non bastava?
Per essere chiari: qui nessuno sogna il comunismo e nemmeno il socialismo reale. Se qualcuno riesce a diventare ricco onestamente, beato lui. Anzi, benvenuto, perché un'impresa economica di successo aiuta tutti. Qui è della forbice che si parla, perché nemmeno un prestigiatore può farci credere che lasciare a un quinto della popolazione solo il 7,1% della ricchezza collettiva, mentre un altro quinto si gode il 40%, sia un segnale positivo o un indizio di salute.
Questa forbice è, oltre che un'ingiustizia, una mortificazione di talenti e uno spreco di opportunità. Non a caso i più penalizzati da un lato sono i giovani, che manco riescono a trovare lavoro (altro che arricchirsi) e dall'altro le attività produttive, schiacciate dai privilegi concessi alla speculazione finanziaria.
A questo bel risultato siamo arrivati grazie al combinato disposto di cecità che, per puri calcoli elettorali, hanno accomunato destra e sinistra. Da un lato quelli che volevano farci credere che gli scudi fiscali concessi ai ricchi (100 mila euro per operazione fu, allora, la media dei ritorni scudati) avrebbero prodotto benefici a pioggia, che i condoni edilizi avrebbero favorito i "piccoli", che l'allentamento delle regole (a partire dal falso in bilancio) avrebbe rilanciato l'economia. Dall'altro quelli del non si tocca niente, del lavoro solo diritto e non anche conquista, della teoria prima della pratica, del moloch sindacale temuto e venerato fino all'immobilismo.
Gli uni e gli altri incapaci (mettiamola così) di lottare contro il sistema dell'illegalità economica diffusa per non dire dilagante, dall'evasione massiccia dell'Iva fino all'ultimo scontrino. E di certo incapaci di ridare dignità alla propria funzione. Perché se sei in Parlamento, con un salario che sfiora i 20 mila euro lordi al mese, otto multe le paghi senza rompere le scatole a nessuno.