Le foto di questo servizio sono di Maura Benegiamo.
Ci sarebbe anche l’Italia tra chi ruba la terra ai poveri in Senegal. O meglio, italiani sono i protagonisti di un intreccio poco trasparente tra industriali nostrani, faccendieri internazionali e politici senegalesi, in un’architettura di scatole societarie anonime che conduce fino a Panama.
Poi ci sono i pastori e i contadini delle aree di Fanaye e dello Ndiael, preoccupati che la coltivazione per il mercato europeo di biocarburanti stravolga il loro modo di vivere.
Per questo in Africa occidentale il progetto Senhuile è sinonimo di accaparramento di terre. Sono 45 mila ettari, per la precisione. Secondo un approfondito rapporto della Ong italiana Re:Common, sarebbe un caso di land grabbing, come gli esperti chiamano quando una larga porzione di terra è venduta ad aziende o governi stranieri senza il consenso delle comunità che ci abitano.
Con la scoppio della crisi finanziaria nel 2008, secondo Oxfam il fenomeno è cresciuto del 1.000%, causando la fame di migliaia di contadini del Sud del mondo. Altre conseguenze: spinge alle migrazioni aggravando l’affollamento urbano, erode culture ed economie locali, mina l’equilibrio tra utilizzo umano del suolo e ambiente.
Fa il punto sul caso senegalese lo studio “Come si accaparra la terra” dell’Ong italiana Re:Common. La società Senhuile viene fondata a Dakar nel 2011 per sfruttare gli incentivi (200 miliardi di euro per il 2013-2032) che l’Italia ha stanziato per produrre energie rinnovabili da biomasse, biogas e bioliquidi. Si tratta di un’alleanza tra l’italiano Tampieri Financial Group (51%) e la senegalese Senethanol (49%); quest’ultima è a sua volta costituita dall’imprenditore senegalese Gora Seck (25%), legato all’ex presidente Abdoulaye Wade e all’influente confraternita islamica Tidjane, insieme all’Abe International (67%), una società anonima registrata a New York con sede a Panama, guidata da Benjamin Dummai, esperto israelo-brasiliano di agribusiness in Africa e Sudamerica.
Una "conquista" in due fasi
La conquista africana della Tampieri, azienda di Faenza (RA) che dal 1928 lavora oli e sementi per trasformarli in energia, avviene in due fasi. Nella prima ottiene un contratto d’affitto per 20 mila ettari dalla municipalità di Fanaye, nel nord del Senegal, per produrre patata dolce da trasformare in bioetanolo. La gestione in proprio avrebbe garantito a Tampieri di non subire le oscillazioni dei prezzi delle materie prime.
Tuttavia, quando nell’ottobre 2011 gli abitanti capiscono che Senhuile avrebbe stravolto la loro vita, la protesta degenera in conflitto. Due abitanti uccisi, venti feriti e l’allora presidente Wade decide di spostare il progetto. In cambio, la concessione che avvia la seconda fase, quella attuale: l’azienda di Faenza riceve, questa volta direttamente dal Governo, 20 mila ettari nella Riserva Avifauna di Ndiael, a pochi chilometri dal confine con la Mauritania, e successivamente 5 mila a Fass Ngom.
L’operazione è voluta da Wade e poi confermata dal nuovo presidente Macky Sall, nonostante in campagna elettorale ne avesse promesso la sospensione. Svolge un ruolo chiave un personaggio soprannominato “Baba Copré” (che significa “Papà Denaro”).
Nella primavera 2014, un’ulteriore svolta: l’amministratore delegato di Senhuile, Benjamin Dummai, viene prima licenziato e poi arrestato. A quel punto reagisce facendo causa alla società per 14 capi di imputazione, tra cui l’aumento fittizio del capitale sociale a fini fraudolenti e il riciclaggio di denaro. La Tampieri decide di impegnarsi maggiormente in prima persona, inviando da Faenza lo storico dirigente Massimo Castellucci. «Nell’ultimo anno», dicono gli autori del report di Re:Common, «Tampieri ha puntato molto sulle pubbliche relazioni per ingraziarsi le simpatie degli abitanti dei villaggi interessati al progetto. Eppure gli incontri sul campo con le comunità mostrano una forte contraddizione tra ciò che dice l’azienda e l’esperienza delle persone, rivelando come il programma di responsabilità sociale d’impresa della società sia molto deficitario».
Non si riesce più a praticare la pastorizia, per l'accesso interdetto in molte aree
Si parla della distribuzione di qualche quaderno e medicinale, ma Ardo Sow, a nome dei 37 villaggi coinvolti, ribadisce «la richiesta di sospendere il progetto». I 9 mila abitanti della zona infatti non riescono più a praticare la pastorizia, che rappresenta la loro principale risorsa. Con il clima semi-arido del Sahel, vari studi hanno provato che la transumanza è uno strumento per prevenire il degrado ambientale e garantire gli alimenti necessari. Ma con il progetto della società italiana, il pascolo è impedito in molte aree, mentre la rendita del latte di equini e ovini sta già calando.
Le critiche a questo progetto “di sviluppo”, come lo chiama l’azienda, o di “accaparramento della terra”, come ribattono le Ong, non finiscono qui: il licenziamento poco trasparente di decine di dipendenti, la causa intentata contro l’azienda dall’ex amministratore Dummai che conferma i dubbi sull’intera operazione e addirittura delle morti. Alcuni bambini del Ndiael sono annegati nei canali di irrigazione del progetto, privi delle dovute protezioni. L’ultima volta, a giugno, ha perso la vita un pastore di 16 anni.