«Quando eravamo bambini non ci rendevamo conto di quale lavoro straordinario facesse papà. Nel villaggio dove abitavamo, a Cape Canaveral, tutti erano impegnati per lo sbarco sulla Luna: tecnici, scienziati, astronauti. Noi vivevamo in mezzo alle loro famiglie, era la quotidianità. Normale sentir parlare di navicelle e uomini nello spazio. Per noi, papà era sì un grande ingegnere, ma perché metteva luci magiche all’albero di Natale, intagliava zucche a Halloween o dipingeva le uova di Pasqua...».
Chi racconta è Teresa Petrone, 63 anni, prima dei quattro figli di Rocco Anthony Petrone (1926-2006), figura carismatica e fondamentale per la riuscita di una delle più grandi imprese dell’umanità: il progetto Apollo 11.
Fu lui, modesto figlio di emigranti della Basilicata, diventato direttore delle operazioni di lancio, a dare il denitivo “go” per il via alla missione. Insomma, a lui toccò realizzare in maniera clamorosa il sogno americano di generazioni di emigranti.
«Nessuno potrà mai dire abbastanza bene di Rocco Petrone. Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco». Con queste parole Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center, restituisce il peso a una figura rimasta nell’ombra ma che ha avuto un ruolo centrale nel lungo e complesso percorso che ha portato l’uomo a mettere il piede sulla Luna.
Timido e ombroso, inflessibile e infaticabile, fu il principale collaboratore di Wernher von Braun, il tedesco che dallo sviluppo della missilistica della Germania nazista venne chiamato negli Stati Uniti, con un manipolo di suoi connazionali, a dirigere il programma spaziale americano.
Occhi penetranti e glaciali, un fisico imponente da ex giocatore di football, un metro e 90 di altezza per un quintale di peso, Rocco era temuto e ammirato, al punto di guadagnarsi il soprannome di “tigre di Cape Canaveral”.
La sua storia è straordinaria. Nato da genitori italiani il 31 marzo 1926 ad Amsterdam, cittadina dello Stato di New York, per lo Ius soli era di fatto americano. Mamma Teresa e papà Antonio erano giunti in America cinque anni prima, da Sasso di Castalda, nelle montagne della Lucania. Venne battezzato Rocco, come il santo protettore di quel paesino in provincia di Potenza, e Anthony, come papà Antonio, secondo l’uso americano.
«Il padre di Rocco morì che lui aveva sei mesi, travolto da un treno. Era casellante e come tanti nostri meridionali aveva un orticello sulla massicciata, vicino alle rotaie. Troppo vicino», racconta Renato Cantore, 67 anni, giornalista, per passione biografo dell’ingegnere italoamericano. «Teresa, rimasta sola, avrebbe voluto tornare al paese, ma si fece forza e riuscì a crescere quel ragazzino robusto e intelligentissimo. Rocco fu il migliore allievo all’high school e per meriti scolastici poté frequentare l’Accademia di West Point e laurearsi poi al Mit, Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università del mondo».
Petrone entrò quindi nel leggendario gruppo di ingegneri che fondarono in Alabama quella che, nel 1958, sarebbe diventata la Nasa, per realizzare la promessa fatta da John Kennedy di portare l’uomo sulla Luna.
«Rocco incontrò il presidente Kennedy due volte», continua Cantore. «La seconda sei giorni prima della sua uccisione. Grazie alle sue doti espositive, era proprio Petrone che sovrintendeva alle riunioni, fatte anche in presenza di uomini del Governo, per presentare lo sviluppo dei progetti e quindi anche dell’Apollo 11».
Un documentario che racconta la storia di Rocco Petrone, dal titolo Luna italiana, viene presentato in anteprima il 17 luglio nella sua regione di origine, la Basilicata, a Matera, Capitale europea della cultura 2019. Andrà in onda anche su History (Sky) il giorno seguente. Rare e preziose le immagini, provenienti dagli archivi di Istituto Luce, Teche Rai, AP, Bbc e Nasa.
Vi si racconta anche di quel soldato che, forgiato da West Point, fu mandato nella patria di mamma e papà a combattere gli italiani. Nei successivi anni dell’occupazione, decise di andare a cercare la nonna. Così l’anziana signora aprì un giorno la porta della sua casa in Lucania a uno sconosciuto ragazzone americano in uniforme. Alle sue spalle, il postino consegnava una lettera spedita mesi prima. C’era scritto: «Cara nonna, vengo a conoscerti...» .