«Occorre vivere il dialogo esplorativo ogni giorno, stiamo soffocando senza dialogo. Oggi più che alla diplomazia ci si affida ai messaggi bellicosi. Mai siamo stati in una situazione così drammatica dal dopoguerra». All’incontro internazionale “Il grido della pace” (Roma, 23-25 ottobre), così ha detto Andrea Riccardi di fronte ai presidenti Mattarella e Macron, oltre a centinaia di leader cristiani delle diverse confessioni, rabbini ebrei, musulmani sunniti e sciiti, esponenti buddisti e di altre religioni asiatiche convenuti da tutto il mondo; alla cerimonia conclusiva al Colosseo interviene papa Francesco. Significativo esempio di quel “dialogo esplorativo” da tenere aperto è la presenza di esponenti delle differenti Chiese ortodosse, tra cui quella russa con il metropolita Antonij e alcuni rappresentanti di quelle ucraine, dilaniate dalla guerra.
È l’edizione annuale del cammino nello “spirito di Assisi”: nel 1986 Giovanni Paolo II convocò diversi esponenti religiosi, con i loro abiti variopinti, nella città di san Francesco, proponendo di diventare insieme artigiani di pace. Il pensiero è per la Siria, dove al dodicesimo anno la guerra pare eternizzarsi, l’Afghanistan con il dolore per la riconquista di Kabul dei talebani già dimenticato, il Corno d’Africa, il Nord del Mozambico, ma soprattutto l’Ucraina invasa. Qui l'Europa è sfidata dalla guerra. Olga Makar di Sant’Egidio ha raccontato: «Ci svegliamo al mattino e andiamo subito a controllare cosa sia esploso durante la notte». A Izjum un suo zio è rimasto nascosto per settimane nel sotterraneo della casa, mentre in città c’erano i combattimenti. «La sua piccola nipote – continua – gli ha detto: “Nonnino, portami per favore un po’ di tè”. È uscito dal sotterraneo ed è andato in casa. In quei pochi minuti un missile ha colpito l’edificio e tutta la sua famiglia è morta: la moglie, la figlia, il genero e i nipoti. Mio zio è sopravvissuto, ma ci ha messo quattro ore per uscire da sotto le macerie. Lui dice: “Non so come vivere adesso, non so cosa fare”. Questa domanda – come vivere adesso? – è ciò che si chiede ogni ucraino». È anche la domanda su cui nei tre giorni si sono interrogati capi religiosi e politici, uomini e donne del pensiero laico. È possibile sostenere chi è aggredito e insieme parlare con l’aggressore? È possibile invocare la pace senza che qualcuno cerchi di trarne vantaggio? È possibile collaborare con gli altri paesi del mondo per indurre i contendenti alla pace senza che rinunciare ai miei interessi negli equilibri mondiali? No, non è possibile risponde il pensiero unico della guerra. Invece è possibile conciliare queste e altre contradizioni, immaginando ad esempio – come ha detto il presidente francese Macron all’inaugurazione dell’assemblea – una “pace impura”, svincolata dai tanti miti di “purezza” che conducono all’impotenza o, peggio, alla divisione, all’esclusione, alla violenza.
Per Riccardi, «una politica realista rifiuta una lettura scontata del presente, ha bisogno di una visione più ampia alla luce della quale muoversi. Il vero realismo ha bisogno di un’immaginazione alternativa che disegni una visione di pace a fronte di pensieri stanchi e rassegnati». Secondo lo storico Agostino Giovagnoli «quell’immaginazione alternativa si è incarnata nell’Unione europea, una costruzione di pace nata dopo il conflitto mondiale dalla volontà di pace dopo millenni di guerre di tutti i tipi: politiche, religiose, sociali, civili»; per Jeffrey D. Sachs, consigliere speciale del Segretario generale Onu, a sessant’anni dalla crisi dei missili di Cuba «la lezione che ci resta è che in un tempo di proliferazione nucleare nessuno può permettersi di mettere gli avversari all’angolo e di umiliarli». È un’utile indicazione anche per i rapporti con Mosca. Millenni fa, lo storico romano Tacito constatava: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «dove fanno il deserto, lo chiamano pace». Senza immaginazione alternativa, c’è il rischio della guerra infinita, eternizzata. La guerra – in teoria – comincia sempre per la pace, si propone uno sbocco di pace, quello più favorevole ai propri interessi. Ma in guerra tutti i calcoli e tutte le previsioni vengono sconvolti e così la pace può non arrivare.
O, in ogni caso, arriva troppo tardi: «Ogni giorno di guerra è un giorno sottratto alla pace, è un giorno di morte e di devastazione, ogni giorno diventiamo peggiori a causa della guerra», dice il cardinale Matteo Zuppi. Tanti i temi su cui ci si è confrontati: cambiamento climatico, migrazioni, data comune per la Pasqua cristiana, anziani, Mediterraneo, rischio nucleare, conflitti. «In questi giorni stiamo cercando di svegliarci dal torpore emotivo e intellettuale indotto dalla guerra», è una frase ascoltata per avviare un panel. Ci si interroga su come le religioni possano contribuire a questa “immaginazione alternativa”. Di fronte alle sfide del mondo, non sempre gli uomini e le donne credenti sono all’altezza del patrimonio trasmesso dalle fedi in cui credono, arrivando a benedire i cannoni, anche negli aiutati.
«Resistere allo spirito bellicista deve essere la resistenza degli uomini di fede, la guerra è la madre di tutte le povertà, la pace deve essere la madre di tutte le nostre battaglie», ha detto il francese Jean-Dominique Durand, presidente di Amitié Judéo-Chrétienne, alla sua venticinquesima partecipazione degli incontri nello “spirito di Assisi”.
Questo ha fatto l’incontro “Il grido della pace”: ci si è aiutati, anche da posizioni diverse, a non essere uomini e donne banali, acquiescenti davanti al pensiero unico della guerra e non più alternativi ma conformisti. Di fronte a un mondo lacerato è una tela di dialogo affatto scontata che unisce credenti di fede diverse, che spesso si sono combattute e che ancora oggi parlano con difficoltà, laici e umanisti. «È una tela – ha detto il cardinal Zuppi – che permette a tanti di scegliere la pace e il dialogo: nessuno qui è disoccupato nell’impegno per la pace. La pace è affare troppo importante per essere di qualcuno e ci riguarda tutti».