Una sceneggiatura originale, quella di La sposa, fiction in tre serate che va in onda per la seconda volta su Rai 1 da domenica 30 aprile (Endemol Shine Italy): non è una vicenda vera, non è tratta da un romanzo, ma porta gli echi delle storie dickensiane, dove i protagonisti devono superare avversità e lutti, ma alla fine la loro determinazione e forza di volontà trionfano. Siamo negli anni Sessanta in Calabria, dove Maria, per salvare la famiglia dai debiti, accetta di sposare un contadino veneto per procura. In realtà è lo zio dello sposo ad aver architettato tutto, per poter avere un erede sano a cui affidare la sua attività agricola, e quando Maria arriva in Veneto il marito Italo non ne vuole sapere di lei, ancora legato al ricordo della prima moglie scomparsa misteriosamente da tempo. Con pazienza e amorevolezza Maria, malgrado i pregiudizi nei confronti dei meridionali, comincia a conquistarsi la fiducia di tutti. Storia intricata e appassionante, con Serena Rossi in un ruolo drammatico, interpretato magistralmente.
«Ho dedicato», dice l’attrice, «questa parte alla mia nonna paterna Giuseppina, che ha faticato tanto, prima lavorando la terra, poi trasportando sulle spalle i mattoni quando il marito ha creato una piccola impresa edile. Lei è venuta a mancare durante le riprese, e mio padre, quando gli facevo vedere degli spezzoni di girato, mi diceva che le assomigliavo molto. Non posso dimenticare neppure la nonna materna, che a 30 anni aveva già otto figli».
Un ruolo impegnativo, anche fisicamente?
«Ho voluto girare io tutte le scene, anche quando Maria si getta in un fiume vestita per salvare Paolino, il figlio di Italo. Che freddo! E anche se avevano previsto una controfigura, ho voluto mungere io le mucche. È stato bello ritrovare il contatto con le mie radici, la terra, la natura».
Lei è napoletana, come ha imparato il dialetto calabrese?
«Ho avuto un coach per l’accento calabrese, che poi nei momenti più accesi, quando Maria parla con la famiglia o la compaesana Nunzia, o quando si arrabbia, diventava un vero e proprio dialetto. D’altronde anch’io nella vita quotidiana nei momenti più intensi parlo napoletano».
Maria è dolce ma non remissiva, e si trasforma in una vera e propria leader radunando intorno a sé i lavoratori, e soprattutto le lavoratrici. Un esempio di femminismo?
«Di lei mi piace che riesce a farsi rispettare senza scimmiottare gli atteggiamenti di un uomo. Io credo che non occorra snaturarsi per far valere i propri diritti. Quando invita le donne a unirsi in una sorta di cooperativa fa una vera rivoluzione, perché dice che il frutto del lavoro collettivo sarà diviso equamente. Inoltre invita le donne a portare i bambini con sé, perché verranno accuditi a turno in una specie di asilo aziendale ante litteram».
Certo, in poche generazioni le cose sono radicalmente cambiate. Delle nonne ci ha detto: e sua madre?
«Lei ha sempre amato cantare, un po’ tutta la mia famiglia è piena di artisti, ed è stata una delle prime speaker radiofoniche delle radio libere. Ma quando siamo arrivate io e mia sorella ha deciso di lasciare il suo lavoro di insegnante per fare la mamma a tempo pieno».
E lei come concilia il lavoro con la famiglia?
«Posso contare su dei super nonni e poi Davide, il mio compagno, anch’egli un attore, è bravissimo con nostro figlio. Siamo una famiglia solida, e quando ho detto al mio Dieghino, che ha 5 anni e mezzo, che sarei dovuta stare lontana per un po’ per girare la seconda stagione di Mina settembre - noi viviamo a Roma, il set è a Napoli -, lui mi ha detto che dovevo farlo perché era una cosa importante per me. Lo raggiungo nei weekend, facciamo le videochiamate, siamo stati insieme durante le vacanze di Natale. Insomma, per le donne non è ancora mai facile».
Di recente ha interpretato un ruolo di donna assai diversa, Elizabeth, la moglie di Diabolik, di cui ignora l’identità criminale.
«Una donna totalmente sottomessa al marito, che vive nella sua ombra, così diversa da me. Mi sono molto divertita a interpretarla».
Ci racconta come ha iniziato giovanissima a entrare nel mondo dello spettacolo?
«Facevo il karaoke casalingo, e uno zio che viveva in Germania ed era tornato per le feste, sentendomi cantare mi ha detto che ero brava e che conosceva un amico che faceva piano bar. Così ho iniziato a 15 anni a esibirmi nei locali. E una sera che cantavo in un pub, accompagnata da mio padre alla chitarra, ci hanno detto che a Napoli cercavano cantanti per un musical. Mi sono presentata e mi hanno preso. Poi è arrivato la parte in un film, poi un Posto al sole e da lì non mi sono più fermata…».
Fino a diventare anche la madrina dell’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia…
«È stato un sogno, quando il direttore Alberto Berbera mi ha scritto una mail per dire che aveva pensato a me, non riuscivo a crederci. È stata un’esperienza intensa, emozionante, in cui ho avuto la possibilità di conoscere i grandi del cinema, ma è un ruolo che ho svolto a modo mio, con serenità e leggerezza. A chi lavorava con me dicevo che non stavamo facendo un’opera zione a cuore aperto e, consci del privilegio che avevamo, dovevamo sì dare il massimo, ma sempre divertendoci».
Lei e il suo compagno durante i primi mesi della pandemia avete dato vita a un progetto di solidarietà che va avanti ancora oggi.
«Eravamo a Napoli in lockdown e ci siamo detti che era il momento di fare qualcosa in prima persona. È nato “Spesa sospesa,” che, grazie all’abilità di Davide, ci ha portati a raccogliere 800 mila euro, mettendo in contatto piccole aziende con i bisogni delle famiglie, eliminando lo spreco alimentare. La povertà non è certo finita con il lockdown e così continuiamo a portare cibo e prodotti per l’igiene e la casa nelle famiglie di tutta Italia. E mi fa piacere svelare ai lettori di Famiglia cristiana il mio ultimo progetto solidale destinato ai bambini malati di leucemia linfoblastica: vengono curati con un nuovo protocollo che si chiama Car-t per i soggetti resistenti alle terapie tradizionali. Io ho registrato una serie di video in cui leggo un libro che, in forma fiabesca, spiega loro in che cosa consiste questa particolare terapia, a causa della quale sono costretti a rimanere lontani dalla famiglia».