Deluse i cardinali che nel Conclave del 1958 lo votarono come candidato «di transizione». Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963) è stato uno spartiacque. Giovanni XXIII ha colpito e colpisce ancora per la profondità della sua fede e la qualità della sua umanità, oltre che per l’incisività della sua azione. Alcuni tratti distintivi hanno lasciato il segno. La capacità di dialogo, innanzitutto. Sia da semplice prete che da fine diplomatico della Santa Sede(nunzio a Sofia, Istanbul e Parigi), sia da patriarca di Venezia che da Papa, Roncalli seppe tessere relazioni ovunque. Ciò gli consentì di conoscere il variegato mondo ortodosso. Ma anche di salvare molti ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Fu inoltre profeta di speranza in tempi cupi. Nell’ottobre 1962 il mondo tremò. Bob Dylan compose una delle sue ballate più celebri, A hard rain is gonna fall (Una dura pioggia cadrà): «Scrissi quella canzone durante la crisi dei missili a Cuba. Mi trovavo di notte con altra gente e ci chiedevamo preoccupati se la fine del mondo fosse prossima». Giovanni XXIII cercò di mediare tra Kennedy e Chruščëv. Soprattutto aprì il Vaticano II (1962-65), una potente ventata di Spirito che tolse la ruggine dai cuori e dai templi, rendendo visibile il volto misericordioso della Salvezza. Tutto ciò fu il “Papa buono”. Per definirlo, Hannah Arendt scelse parole semplici, ma non scontate: «Un cristiano sul trono di Pietro». Nel dossier pubblicato sul numero in edicola, curato da Alberto Chiara, Luciano Regolo e Antonio Sanfrancesco, ne approfondiamo la vita e il pensiero.
Don Armando Matteo: «Fu lucido profeta del cristianesimo dei giorni nostri»
«L’eredità lasciataci da san Giovanni XXIII è immensa. Soprattutto per l’idea di una Chiesa che si metta “nella e con” la compagnia degli uomini del suo tempo. L’umanità di allora era profondamente ferita da due conflitti mondiali divampati in meno di un trentennio, cercava quindi una speranza, una ripresa, e Roncalli punta sulla misericordia, sulla vicinanza, sulla prossimità. Tanto da passare alla storia come il “Papa buono”».
Parla con trasporto don Armando Matteo, dal 5 giugno 2022 segretario per la sezione dottrinale del Dicastero per la dottrina della fede, nel tratteggiare gli aspetti di maggiore attualità della figura e del magistero del Pontefice scomparso 60 anni fa, capace di anticipare, in uno scenario tanto diverso dall’odierno, quella «rivoluzione della tenerezza» cui papa Francesco non smette mai di spronare. «Pensiamo ai “fuori programma” di Giovanni XXIII impensabili per il protocollo di allora, la visita ai piccoli ricoverati del Bambino Gesù, il “discorso della luna” con l’invito ai fedeli di portare la sua carezza ai bambini, ma soprattutto la visita ai detenuti: fu il primo ad andare nelle periferie, quando ancora non se ne parlava, il primo a indicarci che gli ultimi, i sofferenti, o gli “scartati” come dice oggi Francesco, devono essere al centro del nostro cuore».
In quali aspetti del suo magistero possiamo cogliere l’intuizione profetica di papa Giovanni? «Innanzitutto riuscì a distinguere, senza separarle, la dottrina e la forma di comunicazione del Vangelo: il Vangelo non cambia, ma cambiano gli uomini e le donne anche attraverso le esperienze dolorose vissute e quindi la Chiesa deve andare loro incontro per continuare a trasmettere la bellezza della Parola di Dio. C’è perciò in Roncalli la netta percezione della distinzione tra il profilo teologico e quello pastorale. Altro aspetto fondamentale fu l’invito ai credenti a riconoscere i segni dei tempi. Non andava più immaginata una Chiesa come fortezza che si chiude, si arrocca per proteggersi da un mondo ostile perché diverso o problematico, ma c’è una Chiesa aperta, con la consapevolezza che tutti siamo sotto la protezione dello Spirito Santo, la cui forza agisce nella storia degli uomini e indica sentieri nuovi alla comunità cristiana».
«Guerra, poveri, modernità: le sfide di allora sono ancora attuali, vitali e moderne anche le vie indicate»: l'analisi di don Armando Matteo
Abbiamo da poco ricordato i 60 anni della Pacem in terris, l’enciclica di Giovanni XXIII datata 11 aprile 1963: anche questo documento, sembra segno di una consapevolezza quanto mai attuale…
«Senza dubbio quel suo “grido per la pace” portò a galla un principio che oggi è sotto gli occhi di tutti: con la guerra tutti hanno da perdere, con la pace tutti hanno da guadagnare. E per quanto allora si fosse in uno scenario internazionale differente, Giovanni XXIII intuisce la forza che le interconnessioni avrebbero assunto nel tempo. La guerra in Ucraina, con le conseguenze che si riverberano su ogni famiglia in termini di grano o energia, ci sta mostrando in modo drammatico come e quanto in un mondo globalizzato tutti pagano le conseguenze degli egoismi nazionalistici, la stessa popolazione russa. Ebbene: Roncalli nel puntualizzare come non ci possa essere reale prosperità senza riconoscere il bene della vita altrui in quanto tale, traccia il solco di un pensiero da cui muove la Fratelli tutti scritta da papa Francesco, dopo aver parlato più volte di una “guerra mondiale a pezzi” anche quando sembrava un’esagerazione».
Lei ha dedicato un saggio alla Chiesa che verrà: Roncalli aprendo il Vaticano II fu il primo a porso questo problema?
«Sì, e influì moltissimo in questo la sua esperienza come nunzio in Bulgaria, Turchia e Francia ma anche quella di patriarca di Venezia, perché, con la sua sensibilità, seppe cogliere, in realtà così diverse, i cambiamenti che stavano maturando e anche la necessità del dialogo interreligioso. Questo, con un termine allora in voga, lo portò a parlare di “aggiornamento”, ossia del bisogno di preparare la Chiesa a un’epoca che si annunciava differente. E all’apertura del Concilio fece un gesto davvero profetico: i vescovi convenuti in Santa Sede non si riconobbero nei testi preparati per i lavori dell’assise. E lui con forza stabilì che si dovevano riscrivere dando spazio alle osservazioni e alle critiche mosse. Era avanti con gli anni, ammalato, ma non esitò, proprio per il suo grande amore per la Chiesa. Dopo di lui Paolo VI ci regalerà l’Evangelii nuntiandi, Giovanni Paolo II inviterà alla "nuova evangelizzazine". Benedetto XVI insisterà sull'idea di una Chiesa in grado di trasmettere la fedee papa Francescop ribadirà l'importanza di essere capaci di portare Gesù a tutti e tutti a Gesù».
«L'uomo dell'incontro»: Roncalli e la poitica internazionale, parla lo storico Andrea Riccardi
Il 3 giugno 1963 si spegneva Giovanni XXIII. Sessant’anni fa. «Nonostante il tempo trascorso, resta una figura di riferimento ancora oggi», osserva lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Samt'Egidio. «La Chiesa l’ha proclamato santo. Papa Wojtyla, che traghettò la Chiesa nel XXI secolo, volle portare il nome di Roncalli con quello di Montini. Fu infatti Giovanni Paolo II. Il Vaticano II, che ha inaugurato la stagione ecclesiale che viviamo, fu il Concilio di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Durante la Guerra fredda, in una stagione ecclesiale di rapporti gerarchici, papa Giovanni ravvivò la dimensione del “volersi bene” come fatto essenziale nella vita della Chiesa. L’11 ottobre 1962, giorno dell’apertura del Vaticano II, disse ai fedeli in piazza San Pietro, la sera, dalla finestra dell’appartamento: «Continuiamo, dunque, a volerci bene, a volerci bene così, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro, cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà. Niente: Fratres sumus!». In queste parole a braccio, c’è tutto quello che fu chiamato il “Papa buono”. Un’immagine eloquente in questo tempo, fattosi duro. "Siamo fratelli", era il messaggio di Giovanni XXIII. Riprendeva, con semplicità, il suo metodo, tante volte proposto: cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide. Aveva il gusto di accostare le persone, di ascoltare e dire parole amabili, che costituivano una base di dialogo e di comune umanità».
«È stato l’uomo dell’incontro», sottolinea Riccardi. «Anche come diplomatico. Fu anzi uno dei più grandi diplomatici della Santa Sede nel XX secolo. Anche nel contatto con chi era ostile, come il mondo comunista, dove la vita religiosa era perseguitata, Roncalli voleva “rompere il ghiaccio” per allargare la libertà dei cattolici: «Esplorare tutte le vie del possibile, con rispetto e delicatezza », diceva. Alla sua morte, il mondo si fece molto vicino, con partecipazione. Sembrava che cattolici e non cattolici avessero trovato un padre nella Chiesa. La sua agonia fu seguita da tanti in piazza San Pietro e ovunque. Papa Roncalliagonia fu seguita da tanti in piazza San Pietro e ovunque. Papa Roncalli aveva toccato il cuore di molti, nonostante il breve pontificato. Era stato eletto anziano, nel 1958, dopo un Papa ieratico come Pio XII. I cardinali pensavano a un pontificato di transizione. Monsignor Tardini, suo segretario di Stato, da sempre lo considerava, come tanti, un “pacioccone”. Si prevedeva un governo tradizionale, bonario, senza novità. Invece Roncalli introdusse uno spirito pastorale nuovo, non segnato dalla conflittualità come negli anni della Guerra fredda. Convocò il Vaticano II, chiamando i vescovi del mondo a tracciare una linea per il futuro della Chiesa e a esprimere la sua autocoscienza. Il 24 maggio 1963, ormai gravemente malato, il Pontefice spontaneamente espresse il proprio sentire ai suoi collaboratori. È quasi il testamento di papa Giovanni: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica». La Chiesa non è, per papa Giovanni, una cittadella da difendere, ma deve servire l’umanità, anche non cattolica. Infatti, l’enciclica sulla pace, la Pacem in terris, che tanto eco ebbe nel mondo, pubblicata dal Papa nell’aprile del 1963, prima di morire, non è rivolta solo ai cattolici ma «a tutti gli uomini di buona volontà». È la prima enciclica che parla fuori dal recinto cattolico. Roncalli sa che per la pace si deve cooperare con tutti. La Chiesa deve cambiare, perché ci sono «realtà nuove». A chi lo accusa di debolezza e di cedimenti alla modernità, vanni XXIII risponde "Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio". È una grande visione, simile a quella di Gregorio Magno, per cui la «Scrittura cresce con chi la legge». Il Vangelo ha sempre cose nuove da dire a ogni generazione e in ogni situazione.indirettamente»: