Paolo Paticchio, 36 anni, presidente dell'associazione Treno della Memoria
La prima volta che è salito sul Treno della Memoria Paolo Paticchio aveva diciannove anni, frequentava il quinto anno del Liceo scientifico “Salvatore Trinchese” di Martano, paese dell’entroterra salentino, in provincia di Lecce, ed era rappresentante d’istituto. Un’esperienza che l’ha segnato profondamente e che non immaginava avesse avuto un seguito così forte. Dal 2006 a oggi, come presidente dell’associazione “Treno della Memoria” ha accompagnato sessantamila italiani, per lo più studenti, a scoprire i campi di sterminio nazisti.
Il 18 gennaio scorso il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge per finanziare con due milioni di euro i viaggi di istruzione degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado nei campi di concentramento, i “viaggi della Memoria”. Ad aprire la discussione è stata Liliana Segre: «Una volta ho visto un gruppo di ragazzi olandesi che andavano in gita a Auschwitz e avevano un grande gelato, la musica alle orecchie e da quel cancello, “Arbeit macht frei” entravano a ritmo leccando il gelato. Non è possibile che una preside, un’insegnante permettesse tutto questo. Ho dovuto pensare che sei milioni di morti erano morti in vano. Non si va così a fare la gita ad Auschwitz, si va in silenzio, con vestiti adeguati. Non si va in gita, si va come a un santuario anche laicamente, a testa bassa e cercando di ricordare per non dimenticare la Shoah. Una scuola che porta a far questo viaggio e non ha il coraggio di dire che i ragazzi, che i prigionieri erano scheletriti e affamati, vestiti con le divise a righe di cotone rigenerato, che tanta fama hanno avuto nel cinema. I ragazzi dovrebbero andare magari avendo saltato la colazione del mattino».
Com’è stata la sua prima volta ad Auschwitz?
«Era il 2005. Il viaggio era organizzato dall’associazione Terra del Fuoco di Torino per un gruppo di studenti piemontesi. La provincia di Lecce decise d’inviare una delegazione di studenti salentini delle classi quinte tra i quali c’ero anch’io».
Poi cosa accadde?
«La visita era stata emotivamente molto forte tanto che al ritorno parlando con i gli altri ragazzi abbiamo deciso di allargare quest’esperienza aprendo a Lecce l’associazione Terre del fuoco mediterranea collegata a quella piemontese per organizzare questi viaggi. Nel 2013 abbiamo fondato l’associazione “Treno della Memoria” e io sono stato eletto presidente».
Chi ne fa parte?
«I tre soci fondatori: Terra del fuoco Mediterranea, Terra del Fuoco Trentino, per il Nord, e Babel per Toscana, Piemonte, Liguria».
Cosa la colpì di Auschwitz?
«Rimasi scioccato perché tutto quello che avevamo visto aveva chiaramente dei carnefici, i nazisti, e delle vittime, milioni di ebrei colpevoli solo di essere ebrei, ma anche un mondo di mezzo di funzionari, burocrati, uomini delle istituzioni e semplici cittadini che ha preferito non vedere e non ha fatto nulla. La stragrande maggioranza della gente ha assecondato passivamente il corso della storia di quel momento dimostrandosi indifferente o, peggio, connivente e questa è stata la molla che mi ha spinto a impegnarmi in questo progetto di memoria e ricordo perché in ogni frangente della storia ognuno di noi deve conoscere, prestare attenzione a quello che gli accade intorno e tenere desta la coscienza critica».
Partecipano solo ragazzi?
«La stragrande maggioranza sì. Sono studenti delle classi quarte e quinte delle superiori e del primo anno di università. Ma ci sono anche adulti che vogliono fare quest’esperienza insieme a un gruppo e non da soli e tantissimi insegnanti che hanno accompagnato i ragazzi e continuano a venire anche se sono andati in pensione».
Come si svolge il viaggio?
«Ci sono dieci partenze, da gennaio ai primi di marzo, da Puglia, Piemonte, Trentino Alto Adige, Sicilia, Lombardia, Calabria, Campania, Umbria, Lazio, Liguria e Toscana. Prima della pandemia in media partecipavano quattromila ragazzi. Quest’anno siamo arrivati al record di seimila iscritti con l’edizione più partecipata di sempre».
Quali sono le tappe?
«In realtà il viaggio inizia qualche mese prima con quattro incontri di formazione attraverso laboratori tenuti dai volontari dell’associazione e una serie di lezioni tenute da docenti universitari che fanno parte del comitato scientifico dell’associazione coordinato dal professore Daniele De Luca dell’Università del Salento. I temi sono la graduale privazione dei diritti civili di cui furono vittime gli ebrei negli anni Trenta del Novecento, il contesto storico in cui è maturata la Shoah, le vicende dei Giusti tra le Nazioni che si adoperarono, con coraggio e a rischio della propria vita, per salvare gli ebrei perseguitati».
Poi si parte.
«La prima tappa è a Berlino per visitare i luoghi simbolo della città e del suo passato nazista: il Campo di Concentramento di Ravensbruck, il Memoriale Sovietico di Treptower Park e il Memoriale dell’Armata Rossa. Poi si va a Cracovia dove il primo giorno facciamo una visita teatralizzata della città con alcuni attori che nei panni di cittadini comuni raccontano come la popolazione dell’epoca ha vissuto l’ascesa del nazismo evidenziando che non è stato un bubbone della storia scoppiato all’improvviso ma un’escalation graduale che origina dalla fine della Prima Guerra Mondiale dalla quale la Germania uscì in ginocchio, demoralizzata e alle prese con una devastante crisi economica. Adolf Hitler è stato abilissimo a indirizzare il malcontento della popolazione verso la minoranza ebraica dipinta come la sentina di tutti i mali. Il metodo teatrale è fondamentale per far fare ai ragazzi un viaggio nel tempo e fargli capire che non c’è stato un lupo cattivo che dalla sera alla mattina è comparso sulla scena per fare strage ma la Shoah è maturata anche grazie all’adesione popolare dal basso».
Cracovia è una città simbolo della Shoah.
«Non solo per la sua vicinanza al campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau ma anche perché la città ha conosciuto l’occupazione tedesca e la sua popolazione ebraica, più di quindicimila persone, è stata quasi interamente sterminata. Il secondo giorno, infatti, visitiamo il Ghetto, il quartiere ebraico di Kazimierz con la sua sinagoga, la Fabbrica di Shindler e il Museo che illustra la storia della Polonia a cavallo tra le due guerre mondiali con un focus sui Giusti tra le nazioni e su come è stato possibile, anche nell’abisso del male, salvare vite umane».
Infine si varca l’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz dove i nazisti misero il cartello “Il lavoro rende liberi”.
«Uno degli errori, in buona fede, che si fa quando viene raccontata la Shoah è quello di evocare i sei milioni di morti. Il dato numerico è importante per capire l’enormità di quello che è accaduto con il genocidio programmato di un popolo ma spersonalizza, toglie l’umanità concreta alle vittime che sono persone in carne e ossa, con amicizie, affetti, lavori, talenti, storie. Per questo diciamo ai ragazzi di scegliere uno dei deportati, segnarne nome e cognome e durante la visita pensare di ricordarla, immedesimandosi in quello che ha vissuto e provando a immaginare come quella persona ha visto stravolta la sua vita. A Birkenau, ultima tappa di questa fabbrica di morte, chiediamo ai ragazzi di ripetere il nome e cognome aggiungendo la frase “io ti ricordo”».
L’importanza del nome.
«Il nazismo aveva spersonalizzato il massacro perché quelle degli ebrei erano vite talmente non degne di essere vissute perché di razza inferiore da cancellarne anche il nome. I ragazzi durante la visita fanno questo piccolo esercizio e ne restano molto colpiti».
Dopo Auschwitz e Birkenau le parole vengono meno.
«Sì ma nell’ultimo giorno dividiamo i ragazzi in gruppi da cinquanta, si riuniscono guidati dai volontari e fanno un lavoro di restituzione di gruppo su quello che hanno visto e vissuto Paradossalmente, nonostante i social permettano momenti e spazi di condivisione sempre più ampi, gli spazi di discussione collettiva nelle scuole sono sempre di meno e l’idea di fare un confronto li coinvolge molto».
Di cosa parlate?
«Del fenomeno dell’immigrazione, del razzismo, dell’attualità. Il passaggio fondamentale è che i diritti e le libertà di cui godiamo in Europa ma non in altre parti del mondo, penso all’Iran, non sono il frutto di una vittoria al gratta e vinci ma una faticosa conquista quotidiana e che le nostre libertà non finiscono dove iniziano quella degli altri ma sostenendo l’emancipazione degli altri».
Perché per l’edizione di quest’anno avete scelto il tema “Dalla stessa parte”?
«Per ribadire una scelta di campo: il dovere della memoria che passa dal ricordo di chi oggi vede la propria dignità calpestata e conculcati i propri diritti. La Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e il concetto di famiglia umana non devono andare dispersi ma costantemente ribaditi e rilanciati».
Liliana Segre sostiene che ad Auschwitz bisogna andare in silenzio e affamati, non dopo aver fatto merenda.
«Concordo. Noi diciamo ai ragazzi che questa esperienza si deve fare scomodi, per questo viaggiamo solo in pullman e pernottiamo in ostello e non in hotel. Non è una gita turistica».
Molti sopravvissuti ai lager nazisti sostengono che la Shoah presto sarà dimenticata o confinata a poche righe nei libri di storia.
«Il rischio c’è e più passano gli anni più la percezione di quel che è accaduto si dirada. Anche per questo sono fondamentali le testimonianze dirette dei superstiti. Quest’anno ne abbiamo incontrati tre: Oleg Mandic, “l’ultimo bambino di Auschwitz”; Regina Sluszny, una bambina nascosta ai rastrellamenti e che ha vissuto durante la guerra con una famiglia non sua sotto falsa identità e Liliana Manfredi unica sopravvissuta della strage della Bettola e protagonista di una canzone dei Modena City Rambler».
Non le capitano mai ragazzi disinteressati al viaggio?
«Mai. Magari qualcuno di 17-18 anni è più svogliato ma una volta varcato il cancello di Auschwitz c’è un cambiamento radicale, assume immediatamente una presenza diversa. Non accade per caso ma anche perché i ragazzi vengono preparati mesi prima».
Salgono anche personaggi famosi sul Treno della Memoria?
«Sono venuti Caparezza, Daniele Silvestri, Giovanni Floris, l’ex ministro della cultura Massimo Bray ora direttore della Treccani, Ilaria Cucchi, lo scrittore Paolo Giordano che ha fatto un reportage».
Lei cosa fa nella vita?
«Sono vicesindaco di Castrignano de’ Greci, un paese in provincia di Lecce. Dopo il Liceo, avevo la valigia pronta per andare a studiare a Bologna ma dopo l’esperienza ad Auschwitz ho deciso di restare a Lecce e impegnarmi per il territorio e mi sono iscritto a Scienze politiche a Lecce».