In Storia di una famiglia. Corrispondenze 1929-1994 (Bompiani) il regista e scrittore israeliano Amos Gitai ha raccolto le lettere che sua madre Efratia spedì a famigliari, compreso lo stesso Amos, e amici nel corso della sua lunga vita.
Più ancora che la storia di una famiglia, questo libro racconta la storia di un popolo, quello ebraico, negli ultimi sessant’anni.
Era questo il suo obiettivo?
«Efratia, o meglio la sua storia, è interessante perché in un certo senso riassume la storia del Novecento. È stato più facile parlare di quella situazione caotica che è il Medio Oriente attraverso il microcosmo della mia famiglia, per arrivare a parlare in senso generale di Israele».
C’è stato un lavoro di montaggio, in senso cinematografico, sulle lettere?
«No. Non volevo costruire una storia angelicata, abbellita delle persone, volevo mostrarla nella sua completezza, contraddizioni comprese, così come è stata presentata da mia madre».
Da una lettera emerge che ci furono delle frizioni, delle incomprensioni tra i reduci dell’Olocausto e chi era già in Palestina prima dell’avvento del nazismo. Lei cosa ne pensa?
«Io, e sottolineo che si tratta di una mia opinione, penso che i tedeschi abbiano il copyright dell’Olocausto e che lo avranno per sempre. Non solo i tedeschi, ma anche tutti coloro che collaborarono con loro allo sterminio, italiani compresi. Detto questo, l’incontro tra i sopravvissuti e i residenti in Palestina, nel dopoguerra, fu in effetti difficile. Ritengo tuttavia che il tempo abbia poi sanato questi conflitti».
Lei è regista, scrittore, artista… Come s’intrecciano i vari linguaggi nel suo lavoro?
«Sono un architetto, infatti ho studiato architettura sulle orme di mio padre. Dopo la guerra del Kippur, nel 1973 (nel corso della quale sopravvisse all'abbattimento dell'elicottero su cui viaggiava, ndr) però l’architettura cominciò a risultarmi troppo stretta, per cui cominciai a rivolgermi al cinema. Tuttavia non m’interessano gli incassi, non faccio film per fare soldi. Farò film finché me li faranno fare, altrimenti mi dedicherò alla letteratura o all’arte».
Nell’ultima lettera del libro, datata ottobre 1994, rivolgendosi a lei Efratia scriveva «Che sarà di voi giovani? Saprete vincere la tenebra che vi avvolge?». Domande che nel frattempo hanno trovato risposta?
«In mia madre e nelle persone che le erano vicine non c’era l’idea di Israele come di uno Stato nazionale etnico. La sua esperienza personale le aveva insegnato a non avere approcci rigidi alle questioni, a essere più elastica. Le generazioni successive sono in parte cresciute entro confini ideologici molto più rigidi. Forse dovremmo provare a vincere quella tenebra».
Carlo Faricciotti
Nel male eretto a sistema di vita e di governo, nella fatale Auschwitz, Denis Avey ci è entrato volontariamente, spinto dal desiderio di vedere con i propri occhi le ciminiere dei forni crematori, i cadaveri ammassati e le condizioni terribili in cui si trovavano gli ebrei rinchiusi come prigionieri. È il 1944. Avey, dopo essere stato catturato dai tedeschi, finisce in Polonia, nel campo E715, dove di giorno lavora come operaio in una fabbrica insieme ai detenuti del campo vicino, quello di Auschwitz. Incuriosito dai loro racconti, con uno stratagemma riesce ad entrare nel lager scambiandosi di posto con Hans, un deportato ebreo olandese, «uno dei rari di cui mi fidavo». Da quell'esperienza, messa ora in dubbio da molti storici che la giudicano troppo inverosimile, è nato Auschwitz. Ero il numero 220543 (Newton Compton), scritto insieme al giornalista della BBC Rob Broomby, che per primo nel 2009 ha raccolto la storia di Denis in un'intervista esclusiva.
Signor Avey, la sua testimonianza ha permesso di gettare una luce inedita su uno dei massacri più terribili della storia dell'umanità. Chi le ha dato il coraggio di raccontare l'orrore che ha vissuto?
«La storia è saltata fuori per caso. Mi era stato chiesto da alcuni reduci di guerra se avessi potuto sostenerli in un appello alla radio della BBC a Derby. Mi chiesero: “Cosa hai fatto durante la guerra?”. Prima di allora non avevo mai detto una parola a nessuno, nemmeno a mia madre, riguardo al mio periodo ad Auschwitz. Tutto improvvisamente iniziò a uscir fuori dalla mia testa. Non mandarono in onda due programmi per continuare ad ascoltarmi e da lì, Rob Broomby, un giornalista della BBC, si è messo in contatto perché voleva che scrivessi la storia della mia vita. Ci siamo incontrati diverse volte per tantissime settimane e abbiamo trascorso ore discutendo della mia storia e delle esperienze che avevo avuto».
Perché ha deciso di offrire la sua testimonianza a quasi settant'anni di distanza?
«Pochissime persone hanno parlato dei loro problemi durante la guerra, e in ogni caso la gente non voleva saperne troppo. Quando dopo il conflitto sono tornato alla vita militare mi chiesero un report sull’attività relativa ai prigionieri di guerra. Iniziai parlando di Auschwitz e notai subito la “sindrome da occhi vitrei”: nessuno, cioè, aveva esperienza di quegli orribili campi e ovviamente tutto era stato così bestiale e incredibile che mi accorsi subito che non mi credevano. Uscii dall’ufficio e non ne parlai più sino all’intervista alla BBC. In seguito, ho parlato con alcune persone e anche loro non avevano mai parlato della loro prigionia ad Auschwitz. Era stata un'esperienza così tremenda e orribile che si considerava impossibile, o comunque poco credibile, che qualcuno l'avesse provata. Oggi tutti ormai conoscono la storia dell'Olocausto, ma allora nessuno ne parlava».
Per lei, che ha visto con i suoi occhi quel che ad accadeva ad Auschwitz, raccontare è un dovere o solo un tormento che le fa rivivere quelle atrocità?
«Ho voluto che i giovani sapessero delle cose terribili che sono successe in quel lager. In realtà, odiavo parlare dei ricordi di Auschwitz ma volevo anche che i giovani ne fossero consapevoli in modo che se qualcosa di simile succeda in futuro nella loro vita siano in grado di reagire e fare qualcosa. Credo che raccontare la mia vicenda sia stato come passare il testimone alle nuove generazioni affinché possano assicurarsi che tutto questo non accada di nuovo».
Nella storia ci sono stati, e continuano ad esserci, genocidi terribili.
Perché la Shoah è considerato un evento unico, diverso da tutti gli
altri?
«Per quello che accadeva nei campi, qualcosa che ha rischiato di
distruggere la naturale concezione umana di vita. È stato totalmente
incredibile che delle persone potessero reagire in quel modo. La
bestialità alla quale ho assistito ogni giorno superava qualsiasi
immaginazione».
C'è il rischio che oggi in Europa l'antisemitismo di alcuni gruppi possa
sfociare in nuovi atti di violenza e razzismo verso il popolo ebraico?
«No, non lo ritengo possibile, ma credo che il genocidio sia purtroppo
un pericolo sempre in agguato. La crudeltà di un uomo nei confronti di
un altro uomo non è ancora completamente riconosciuta, è un nuovo
concetto che ho sperimentato, da testimone, ad Auschwitz».
Il suo libro è diventato in pochi mesi un bestseller mondiale. Eppure,
molti storici britannici ed ex prigionieri di guerra non credono al suo
racconto perché mancherebbero i testimoni. È dispiaciuto per questo?
«È una bella domanda. No, non mi dà fastidio, l’unica cosa che mi
infastidisce è che non prendono in considerazione le mie parole per
quelle che sono. Non ho raccontato la mia storia volontariamente, mi è
stato chiesto. L’azione è il modo migliore per attaccare. Coloro che
hanno sollevato dubbi nei miei confronti hanno guardato alla mia storia
soltanto con gli occhi dell’epoca di pace di oggi. Quando vidi questa
bestialità non mi sono costruito un meccanismo di difesa, semplicemente
mi ha fatto molto arrabbiare e volevo fare qualcosa a riguardo. Sapevo
benissimo che se l'avessi fatto sarei stato ucciso da un proiettile. Ma è
importante ricordare che tutte le persone, per diversi motivi, di
fronte a certe situazioni reagiscono in maniera differente e poi
agiscono di conseguenza. Auschwitz è stato orrendo ed io ero determinato
a fare qualcosa a proposito».
L'ha amareggiata il rifiuto dello Yad Vashem, il sacrario delle vittime
della Shoah, di nominarla "Giusto fra le Nazioni" per mancanza di
conferme al suo racconto?
«No. Loro sostengono che la mia esperienza non è provata. L’unica prova
che potrei portare è stato quando ho preso le sigarette da mia madre.
Potevamo spedire solo una lettera al mese e diedi a mia mamma
l’indirizzo di Susanna Lobethal, la sorella di Ernst, un giovane ebreo
di origine polacca che avevo conosciuto. Volevo far sapere a quella
donna che suo fratello era vivo e che poteva spedirmi le sigarette per
lui. Le sigarette erano meravigliose: potevi scambiarle con il cibo e
valevano una fortuna. Dandole ad Ernst potevo trovarmi in grave pericolo
con le SS. Ernst, a sua volta, scambiò le sue bionde con un paio di
scarpe nuovo e del cibo. Pensavo che durante la “marcia della morte” non
ce l'avesse fatta ma è sopravvissuto e ha avuto l’opportunità di andare
in America. L’ho scoperto vedendo un Dvd sulla Shoah Foundation, nel
quale, in un'intervista, Ernst diceva che quelle sigarette e il cibo che
gli avevo dato lo aiutarono a salvarsi. Alla fine, tornato a casa,
presi una mappa e guardai il nostro cammino da Auschwitz a Bruxelles,
una distanza di 900 miglia percorsa in situazioni disperate, costretti
spesso a stenderci nella neve di notte. L’animo è un grandissimo
fattore, così come l’adrenalina, e questi, con la forza ottenuta dalle
sigarette, sono ciò che hanno aiutato Ernst a sopravvivere».
Antonio Sanfrancesco
In uno splendido libro uscito un anno fa, La bontà insensata (Mondadori), Gabriele Nissim spiegava bene come le gesta dei giusti abbiano un effetto positivo non solo nei confronti delle persone che ne beneficiano direttamente, ma in un senso molto più ampio e che si protende verso il futuro. L'azione buona del giusto spezza la spirale della violenza, ha uno straordinario valore esemplificativo, emulativo ed educativo, permette alla società - soprattutto a chi è vittima della violenza - di avere fiducia nell'umanità e di coltivare una speranza, libera gli ingiusti da un senso di colpa da cui potrebbe scaturire altro male... L'opera dei giusti, insomma, assomiglia molto a quel piccolo granello di senape della parabola evangelica che, sviluppandosi e crescendo, produce frutti grandiosi e inimmaginabili. Ecco perché è essenziale coltivare la memoria dei giusti, portarli all'attenzione pubblica, studiare le loro vite le loro decisioni: farne un patrimonio dell'umanità per sostenere la causa del bene nel mare della storia.
Va dunque salutato con entusiasmo, e sostenuto in ogni modo, l'appello a istituire una Giornata in memoria dei giusti, presentato al Parlamento europeo da Gariwo - La foresta dei giusti (associazione che ha la missione di ricordare le figure esemplari di resistenza morale ai regimi totalitari nella storia del '900, www.gariwo.net). L'appello contiene anche l'indicazione di una data, il 6 marzo, giorno della scomparsa di Moshe Bejski, presidente della Commissione dei giusti di Yad Vashem, l'Ente israeliano per la memoria dello Shoah, nel 2007.
«Abbiamo voluto lanciare questo
appello perché il concetto di Giusto, impiegato per la prima volta dal
memoriale di Yad Vashem, ha assunto nel corso degli anni un valore universale e
crediamo che sia di fondamentale importanza, per il futuro dell’Europa e dei
suoi cittadini, preservare la memoria del bene», ha detto lo stesso Nissim, presidente di Gariwo. «Ricordare i Giusti in Europa,
infatti, non significa avere gli occhi rivolti al passato, ma trasmettere un
forte messaggio educativo alle nuove generazioni e tramandare i valori più alti
della cultura europea».
Sulla pagina Facebook ufficiale di Gariwo è possibile formare l'appello.
Paolo Perazzolo
Le iniziative e le pubblicazioni in occasione della Giornata della memoria sono numerose. Un bel segno, in quanto indicano la volontà di non dimenticare. Eccone una selezione.
LIBRI. Mirjam Pressler, traduttrice del Diario di Anna Frank in tedesco, ha scritto la storia della famiglia della ragazza, ricavandone un romanzo avvincente (I Frank, Einaudi). Muovendosi tra realtà e finzione, Sharon Dogar ha immaginato la storia di un ragazzo che, costretto a condividere il rifugio con Anna, finisce per innamorarsene, fino al momento in cui il destino li separerà (La stanza sgreta di Anna Frank, Newton Compton). A Lucille Eichengreen, sopravvissuta a 12 anni di ghetti, si deve una delle più complete indagini sul destino delle donne nella Shoah (Le donne e l'Olocausto, Marsilio). Richard Zimler ha scelto la forma del thriller per onorare le vittime (Gli anagrammi di Varsavia, Piemme). Le testimonianze di Nedo Fiano, Liliana Segre e Piero terracina vengono fatte rivivere da Stefania Consenti (Il futuro e la memoria, Paoline). Maurice Grosman, unico sopravvissuto di cinque figli, rievoca la sua vicenda personale (Una strana fortuna, Giuntina). Ancora una voce personale e diretta, quella di Gianfranco Maris, presidente dell'Associazione nazionale ex deportati politici (Per ogni pidocchio cinque bastonate, Mondadori). Leon Uris narra prima la persecuzione degli ebrei e poi l'esodo in Palestina (Exodus, Gallucci). L'esempio di quattro giovani che misero a repentaglio le loro vite per allertare il mondo sul pericolo rappresentato da Hitler viene proposto dal romanzo di Anna Funder (Tutto ciò che sono, Feltrinelli). Moreno Gentili tratteggia la figura di un collaborazionista (L'inferno dentro, Sonda). Mauro Mazza fa il ritratto del giovane antifascista Giaime Pintor (L'albero del mondo, Fazi). Infine un audiolibro della Emons: Marco Baliani che legge Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani.
MUSICA. Il programma dei concerti del 26 e del 28 gennaio dell'Orchestra milanese I pomeriggi musicali è un contributo alla memoria. Lo stesso farà, sempre a Milano, il 27 e il 28 l'Orchestra Verdi.
TELEVISIONE. Su Diva Universal il 27 alle 21 verrà ricordata la figura di Ada Ascarelli Sereni, esponente del movimento sionista che, fra il 1945 e il
1948, organizzò 33 spedizioni riuscendo a far arrivare in Israele quasi 25 mila
ebrei, salvandoli dallo sterminio. Discovery World ha dedicato tutti i venerdì di gennaio alla Giornata della memoria.
Paolo Perazzolo