Il cardiologo René Lumu e l'infermiera Josephine Gadra con Leon Tshilolo, direttore dell'ospedale di Monkole, a Kinshasa. In copertina: il cardiologo e l'infermiera a San Donato, durante la formazione (Foto dell'Associazione Bambini Cardiopatici nel Mondo).
Il cardiologo René Lumu, 52 anni, non è abituato a maneggiare i pacemaker. L’infermiera ventinovenne Josephine Gadra è invece stupita da come negli ospedali italiani «le cure siano tutte gratuite». Da gennaio, René e Josephine sono in formazione nel reparto di cardiochirurgia pediatrica del Policlinico San Donato, alle porte di Milano, grazie al Progetto Africa dell’onlus Bambini Cardiopatici nel Mondo e a una borsa dell’agenzia Wellcare.
Vengono da Kinshasa, la capitale del Congo, dove fanno attività ambulatoriale per adulti e bambini nell’ospedale di Monkole, realizzato nel 1991 dall’Opus Dei. I due borsisti rimarranno a San Donato fino a settembre, ma poi l’obiettivo è impegnativo: creare una rete sanitaria tra Congo, Senegal e Camerun che possa gestire i casi più gravi.
«A Monkole», racconta René, «visiteremo i pazienti per decidere se sarà sufficiente una terapia farmacologica, o se invece servirà un intervento chirurgico. In questo caso, i pazienti saranno inviati al Cardiac Center di Shisong in Camerun, realizzato nel 2001 grazie a Bambini Cardiopatici nel Mondo, dove invece è possibile essere operati».
Sì, perché la cardiochirurgia in Congo è praticamente sconosciuta: non si insegna alla Facoltà di Medicina, non si fanno operazioni cardiochirurgiche. Del resto, per tutti i 61 milioni di abitanti del Paese, i medici attivi sono 6.000, gli infermieri 40.000 e le ostetriche 5.700, cioè meno di un terzo di quelli che secondo l’Oms servirebbero per avere una copertura sanitaria minima.
Josephine traduce i numeri: «Vuol dire che se fai una diagnosi, anche se è corretta, non puoi intervenire e devi accettare di vedere il paziente morire davanti a te. Sapendo che si poteva salvare. Finora, per i malati di cuore l’unica speranza è l’ospedale di Emergency a Karthoum, in Sudan, ma la lista di attesa è sempre troppo lunga».
Josephine racconta quando ha scelto la sua professione: «Vivevo in un villaggio, mio fratello morì di malaria e decisi che sarei diventata infermiera». René invece è cresciuto in una città mineraria, dove si estrae il cobalto e i diamanti: «I bambini sognano di diventare ingegneri, medici, o preti; io ho scelto la seconda». Lui, che si è formato anche a Parigi e al Campus biomedico di Roma, spiega che «ormai c’è una generazione di medici congolesi preparati e competenti, ma emigrano all’estero per assenza di infrastrutture adeguate. In Canada e soprattutto nei Paesi dell’Africa australe (Sudafrica, Mozambico, Botswana, Namibia, Zambia)».
Josephine, che ha avuto la moglie di René come insegnante, assicura: «Noi rimarremo a Kinshasa». E sottolinea il grande problema della sanità congolese: «A Monkole curiamo anche chi non può pagare, ma negli altri ospedali non ti toccano se prima non dai i soldi». Ogni prestazione è a pagamento, devi portare cibo e lenzuola da casa, gli infermieri vendono sottobanco le medicine. Il dottore aggiunge: «Nella sanità, come in ogni settore, la corruzione è dilagante e anche per questo diventa difficili persino l’assistenza di base».
Per questo, l’impatto con l’ospedale di San Donato è stato un po’ uno shock. Spiega Josephine: «Tanti medici e infermieri, tutti così aggiornati e specializzati, macchinari di ogni tipo e soprattutto la gratuità delle cure grazie alla tessera sanitaria». Aggiunge René: «Mi colpisce la professionalità dei colleghi italiani che lavorano dalle 8 alle 17, mentre in Congo, negli ospedali pubblici, i medici escono dall’ospedale già a pranzo». Altra novità è l’atteggiamento dei bambini: «Qui hanno paura del medico, in Africa invece sono contenti di poter essere visitati».
L’associazione Bambini Cardiopatici, il cui presidente Alessandro Frigiola è il primario della Cardiochirurgia di San Donato, vorrebbe formare in futuro altri sanitari congolesi incentivando questa bella alleanza Europa-Africa. Nel frattempo, Josephine sogna a voce alta: «E se un giorno riuscissimo a prendere in carico tutti i bambini cardiopatici del Paese?». Non sarebbe male… Oggi in Congo l’indice di mortalità per cardiopatie infantili complesse è superiore all’80%, mentre in Italia si ferma sotto al 5% .